Il Sole 24 Ore 11/06/2006, pag.6 Luca Paolazzi, 11 giugno 2006
"Ordine mondiale troppo fragile". Il Sole 24 Ore 11 giugno 2006. L’ordine mondiale è instabile è la nostra civiltà è messa sotto scacco dalla crisi energetica globale, che coagula questioni non meno gravi: la proliferazione nucleare e il surriscaldamento del pianeta
"Ordine mondiale troppo fragile". Il Sole 24 Ore 11 giugno 2006. L’ordine mondiale è instabile è la nostra civiltà è messa sotto scacco dalla crisi energetica globale, che coagula questioni non meno gravi: la proliferazione nucleare e il surriscaldamento del pianeta. Mentre l’economia internazionale rischia una brusca frenata nel 2007 provocata dal riassorbimento dell’eccesso di liquidità e dall’esaurirsi dell’insostenibile aumento dei consumi americani. Ormai da una decina d’anni George Soros è preoccupato per le sorti del sistema economico internazionale e per l’inadeguatezza delle istituzioni che ne costituiscono le fondamenta. Nel 1998 intervenne al Congresso Usa per perorare la riforma e il rafforzamento dell’Fmi. Da allora la sua opinione non è cambiata, semmai i motivi di allarme sono aumentati. E li spiega nel suo ultimo libro: The Age of Fallibility. Consequences of the War on Terror ("L’era della fallibilità. Conseguenze della guerra al terrore", in pubblicazione negli Usa presso PublicAffairs). Che, per le molte note biografiche, l’esposizione dei principi ispiratori e la vastità dei temi trattati, rappresenta la summa del suo pensiero. Il titolo, spiega Soros stesso al Sole 24 Ore, "allude a uno dei punti principali che io sostengo, di natura filosofica: l’età della ragione ha rivelato i suoi limiti e dobbiamo ora riconoscere la fallibilità umana e farne la base di un nuovo illumismo". Il sottotitolo denuncia l’errore capitale compiuto dall’amministrazione Bush nel fronteggiare la sfida terroristica come se questa avesse cambiato il mondo e mutato le relazioni internazionali, giustificando così misure illiberali e da caccia alle streghe. Con risultati opposti a quelli desiderati e desiderabili. Statista senza Stato, come ama definirsi, Soros ha costruito una visione del mondo, e della relazione tra interpretazione della realtà e realtà stessa, originale e ispirata alle lezioni apprese a Londra da Karl Popper, il filosofo austriaco. Dagli anni 60 in poi Soros ha applicato questa visione ai mercati finanziari con grande successo. Il suo Quantum Fund, nato nel 1970 e uno dei primi fondi hedge, ha conseguito una delle più formidabili performance: oltre il 30% annuo (un dollaro affidatogli nel ’70 oggi sarrebbe diventato un gruzzolo di quasi 13mila). Divenne famoso nel 1992 per aver dato la spallata che buttò lira e sterlina fuori dal Sistema monetario europeo, guadagnando con una sola operazione un miliardo di dollari (nel ’98 ne perse in compenso due scommettendo sulla tenuta del rublo). Avvicinandosi ai 50 anni (ora ne ha 75), Soros decise di aver accumulato una fortuna sufficiente. Perciò ha iniziato a dedicare energie e risorse finanziarie (metà del suo reddito annuo, pari nel 2005 a 800 milioni di dollari) a una rete di iniziative promosse dalla Soros Foundation: lotta all’Aids, borse di studio in Sudafrica (all’epoca dell’Apartheid) e nei Paesi dell’allora blocco comunista, inclusione del popolo Rom in Europa. L’elenco è lungo (si veda www.soros.org) e oggi abbraccia 56 nazioni. L’intento unificante è di promuovere i principi della società aperta. Signor Soros, nel suo ultimo libro parla di "crisi energetica globale" e la indica come una minaccia per la nostra civiltà. In che senso? La crisi energetica ha molti aspetti: dall’insufficiente capacità di estrarre petrolio, agli alti prezzi e ai dubbi sulla vera entità delle riserve esistenti. Soprattutto costituisce la confluenza di diversi problemi internazionali, come il riscaldamento del clima e la proliferazione nucleare, ognuno dei quali costituisce un pericolo per la nostra sopravvivenza. Inoltre, la lotta per controllare le risorse energetiche rischia di trascinarci in ogni tipo di conflitti, che distruggeranno l’economia globale. Trattiamo anzitutto la proliferazione nucleare. Come può essere affrontata? Non certo con gli accordi internazionali esistenti, che sono superati e inutili e richiedeno revisioni radicali. Non basta metterci qualche pezza. La stessa crisi iraniana può essere risolta solo all’interno di un nuovo sistema. Con quali caratteristiche? Ci devono essere uguali diritti e doveri sia dei Paesi dotati di armamenti e attrezzature nucleari sia di quelli che non lo sono. In particolare, bisogna mettere a disposizione di questi ultimi i benefici dell’impiego pacifico del nucleare in campo energetico e la moratoria nella costruzione degli arsenali deve riguardare tutti, a cominciare da chi ne è più dotato, che invece non la sta rispettando. Infine, la supervisione internazionale va imposta in modo fermo su qualunque Paese, inclusi gli Stati Uniti, e ciascuna nazione deve accettare le ispezioni. Altrimenti ci sarà sempre il diritto a uniformarsi ai cattivi esempi. Per giunta, la dottrina di Bush dell’attacco preventivo è un incentivo a costruirsi un’arma atomica. Perché è così preoccupato del global warming, il riscaldamento globale? Ammetto di essermi convinto solo di recente dell’esistenza del surriscaldamento del pianeta causato dall’uomo. Il fatto è che siamo già in grande ritardo nell’affrontarlo perché è un fenomeno che si manifesta nel lungo periodo. Se anche cessassimo oggi immediatamente ogni attività che lo provoca, proseguirebbe almeno per un paio di decenni, a cominciare dall’aumento di temperatura degli oceani. Perciò è assolutamente urgente porvi rimedio e il problema non può essere più ignorato. Come si può intervenire? Anzitutto, bisogna ammetterne l’esistenza. Poi la leadership dell’azione va assunta dagli Stati Uniti, che non hanno nemmeno firmato il protocollo di Kyoto; Cina, India e altri Paesi ne seguirebbero l’esempio. Negli Stati Uniti il passo immediato da compiere è cessare la costruzione di quegli impianti di generazione di elettricità alimentati a carbone che usano le vecchie tecnologie e che non potranno essere convertiti; ne sono stati progettati tanti e se realizzati inquineranno per decenni. Le nuove tecnologie non inquinanti sono disponibili, anche se più costose. Il secondo passo è introdurre una carbon tax che renda economico l’impiego di tecnologie costose di risparmio energetico. Sono tutte questioni che richiedono maggiore cooperazione internazionale. Sì, mentre l’attuale ordine mondiale è fragile. C’è un mercato globale ma la cornice istituzionale e legale non ha tenuto il passo con i cambiamenti legati alla globalizzazione. Non si può semplicemente contare su mercati che si autoregolano perché i mercati vanno bene per allocare risorse e soddisfare bisogni privati, non sono invece adatti a prendersi cura dei bisogni pubblici come la pace e la sicurezza, incluso il contrasto del terrorismo, o come le questioni ambientali e il mantenimento della stabilità dei mercati stessi. Perciò servono istituzioni che forniscano beni pubblici. Quelle esistenti non sono abbastanza robuste. Ma è difficile costruire una maggiore cooperazione mondiale se la nazione principale, gli Usa, è restia a cooperare. Gli Usa sono in una crisi tremenda. Sono lo Stato più potente, sono dominanti. Nulla ci può minacciare, solo la nostra stupidità. Siamo stati malamente guidati e non lo abbiamo ancora capito. Il primo passo per uscire dalla crisi è riconoscere che la guerra al terrore è una falsa metafora; accettarla letteralmente comporta politiche controproducenti che minano i principi della nostra società aperta (per esempio, riducendo il diritto alla difesa o attaccando gli oppositori come amici dei terroristi). Finora abbiamo ammesso che l’invasione dell’Iraq è stato un terribile e stupido errore mentre non abbiamo ancora compreso che la fonte di quell’errore è di fare della guerra al terrore (cosa ben diversa dalla difesa dai terroristi) la pietra angolare della politica americana. L’Europa che parte può interpretare? L’Unione europea dovrebbe giocare un ruolo molto maggiore e più costruttivo di quello attuale. Oggi è però in una crisi indipendentemente da quella americana. Essendo il prototipo della società aperta, dovrebbe rafforzare se stessa, essere più coesa, avere un’unica politica estera e rimanere aperta all’adesione di altri Paesi, iniziando dalla Turchia. Il risultato della sua debolezza è che osserva il quadro mondiale e si sente impotente. Ma gli europei potrebbero imporre la loro visione del mondo se fossero uniti nel sostenerla. Ci sono due altri grandi attori: Cina e Russia. Qual è la sua opinione? La Cina ha un’economia molto dinamica ed è la principale beneficiaria della globalizzazione. Il suo Tallone d’Achille è che i governanti hanno paura di dare alla popolazione più libertà. Finché c’è la percezione che il benessere materiale migliora, la gente dà poco peso alla mancanza di libertà. Ma una crisi economica o finanziaria potrebbe degenerare in crisi politica. In Russia è nata una nuova forma di autoritarismo: un capitalismo nazionalistico. In questa organizzazione del potere chi governa può mantenersi al comando e ammassare enormi ricchezze personali. L’Occidente ha mancato l’opportunità di plasmare il cambiamento quando l’Urss collassò. Ora abbiamo perso credibilità e c’è xenofobia. Predicare la democrazia e la società aperta è diventato controproducente perché consolida il sostegno popolare al regime. Qualcosa di simile sta succedendo in Iran. La fallita democratizzazione russa ricorda per alcuni aspetti, anche se con enormi differenze, le alterne fortune della transizione italiana verso un sistema politico di vera alternanza. Cosa ne pensa e come giudica la leadership di Silvio Berlusconi? Francamente ritengo che sia oltraggioso che un leader politico abbia la proprietà di un impero mediatico che domina la scena nel Paese. L’unione di queste due funzioni non è compatibile con i concetti della società aperta. in diretto contrasto con l’esistenza di fonti pluralistiche di informazione ed è un problema molto serio. Quali sono le prospettive economiche mondiali? Nel libro parla di forte rallentamento nel 2007. Il tentativo di prevenire un rallentamento globale iniettando liquidità addizionale sia negli Usa sia in Giappone ha creato una bolla immobiliare che ora si sta sgonfiando. Lo squilibrio degli Usa che consumano più di quel che producono non può durare. In sé il disavanzo della bilancia corrente potrebbe continuare finché è finanziato volontariamente da altri Stati. invece insostenibile il comportamento dei consumatori americani: l’aumento di valore delle case ha consentito loro di continuare a indebitarsi ma adesso il prezzo delle case non sale più. Nelle ultime settimane abbiamo visto alcuni scossoni nei mercati finanziari. Sono nervosi. C’è riduzione di liquidità, il flusso di fondi verso i Paesi emergenti si è invertito e ci sono state alcune serie correzioni delle quotazioni. Molti, e in prima fila le Banche centrali, sono preoccupati che gli hedge fund accentuino l’instabilità. In realtà, spesso contribuiscono alla stabilità. Però se prendono tutti posizione sui mercati nella stessa direzione allora diventano destabilizzanti. Ciò è vero per qualunque forma di speculazione. In questo senso ha ragione chi teme che gli hedge possano essere fonte di pericolo. C’è bisogno di un’attenta vigilanza e di raccogliere dati per essere certi che non ci siano grandi squilibri nelle posizioni che assumono. Luca Paolazzi