La Stampa 10/06/2006, pag.1 Massimo Gramellini, 10 giugno 2006
Schiavi con le cuffie. La Stampa 10 giugno 2006. Non è il caso di andarli a cercare in Cina o in qualche sperduto villaggio del Pakistan
Schiavi con le cuffie. La Stampa 10 giugno 2006. Non è il caso di andarli a cercare in Cina o in qualche sperduto villaggio del Pakistan. I nuovi schiavi abitano accanto a noi e ci stanno pure antipatici. Sono quelli che al telefono rispondono con frasi evasive alle nostre richieste d’aiuto o al contrario chiamano con petulanza per offrire servizi che raramente ci interessano: la tribù dei «call center», di cui ieri è stato reso noto il primo censimento impietoso. La creazione di un ceto di capri espiatori professionali come il Malaussène di Pennac, sul quale l’utente insoddisfatto possa scaricare le sue rabbie, ha prodotto due risultati drammatici. La retrocessione del consumatore a suddito, costretto a dialogare con voci senza volto, sempre diverse, sempre gentili e sempre incompetenti a risolvere il suo problema. Ma soprattutto il ritorno in auge di quel lavoro a cottimo che ci eravamo illusi di aver confinato nel museo della memoria: semafori verdi per poter andare in bagno, il rumore del fax che perfora le cuffie come uno sparo, turni di 120 telefonate in 4 ore che neanche Moggi, al termine delle quali la schiena sembra un inno alla scoliosi e il cervello è ridotto alla consistenza di un semolino. Una catena di montaggio mentale che si consuma in ambienti sovraffollati, con stipendi che non bastano a pagare l’affitto di una monocamera. Agli albori del turbocapitalismo ci eravamo raccontati la favola che i «call center» fossero il classico lavoro temporaneo che avrebbe permesso ai giovani di guadagnare qualcosa in attesa di spiccare il volo. Oggi l’età media degli schiavi con le cuffie è 40 anni, quando un impiego del genere, più che un trampolino, viene percepito come l’anticamera del fallimento esistenziale. Pensiamoci, la prossima volta che digitiamo uno di quei numeretti telefonici che fanno ridere solo nelle pubblicità. Massimo Gramellini