Corriere della Sera 12/06/2006, pag.29 Paolo Di Stefano, 12 giugno 2006
Garzanti: il mio Platone contro i profeti del ’68. Corriere della Sera 12 giugno 2006. «Platone? L’ho trattato leggerissimamente, a differenza di quello che fanno i noiosi professori»
Garzanti: il mio Platone contro i profeti del ’68. Corriere della Sera 12 giugno 2006. «Platone? L’ho trattato leggerissimamente, a differenza di quello che fanno i noiosi professori». Così Livio Garzanti presenta il suo libro, Amare Platone, pubblicato in questi giorni da quella che fu la sua casa editrice. «Io l’ho letto da dilettante neanche troppo intelligente. Ho scritto un libro allegro, un po’ improvvisato». Altro che improvvisato: la riflessione di Garzanti su Platone viene da lontano, da anni di rimuginamento: «L’ho lasciato lì 10-12 anni fa, perché mi dicevano che mi esponevo troppo e non volevo che un professorino qualunque mi sfottesse». E poi? «L’ho ripreso dopo la morte di mia moglie». La moglie di Garzanti era Gina Lagorio. «Ero disperato e questo era un modo per passare qualche mese concentrato su altro. La vera ragione del libro è la dedica: è un libro di consolazione». La dedica è «alla grande memoria» di Gina. «Sa cosa diceva quel filosofo... Bobbio. Diceva che alla nostra età gli affetti contano molto più dei concetti. È una massima bellissima». Chi si avvicina a questo piccolo libro (sul più complesso dialogo platonico, il Fedro) ha, immediata, la percezione di un racconto piacevole, che scorre via confidenziale: quasi un invito a Platone, antiaccademico e a tratti spregiudicato. «Alcuni filosofi mi hanno detto: ma Platone non si tratta così. Vattimo, figurarsi... Certo, Platone è un filosofo lungo, noioso, faticoso, che ti mena a spasso: nessuno se l’è mai goduto veramente, è stato devastato dalla passione neoplatonica dei soci dell’attuale Papa, che hanno voluto scoprire il già noto. Agostino comanda su di noi». Garzanti ci va leggero con Platone, ma non con i platonici: «Oggi la filosofia è stufa, lo spiritualismo è stanco, la fenomenologia è consumata e allora si può finalmente scoprire che Platone va letto con godimento, come un grande scrittore, nel suo gioco verbale, nella sua immensa fantasia immaginativa. Se mi facessero un esame di liceo su Platone verrei bocciato... Però da dilettante mi sono reso conto che manca una lettura sensibile alla poesia di Platone, ma oggi non c’è nessuna sensibilità per la lingua, siamo in un periodo di totale decadenza, la lingua è il riflesso della barbarie del nostro paese, dove si diventa famosi con il pensiero debole». Livio Garzanti, che compirà tra poco 85 anni, finge di non essere al corrente di ciò che esce e invece osserva tutto da lontano, non smette di leggere (in questi giorni, seduto in poltrona, legge la Storia dell’eternità di Borges), finge di non ricordare niente del suo passato di editore, ma poi a poco a poco lascia emergere dalla sua memoria i personaggi che ha incontrato, autori, colleghi, intellettuali, collaboratori. In realtà Garzanti è più personaggi in uno. Al primo, il «filosofo», segue il Garzanti due, lo scrittore di riflessione, di cui in questi giorni viene riproposto il primo romanzo, L’amore freddo (Viennepierre): «Un romanzo che è rimasto un po’ soffocato quando uscì, nell’80: forse giustamente, perché fu visto come il libro di un padrone di autori. La politica einaudiana era molto contraria a queste cose». Ed ecco il Garzanti tre, che invade tutti gli altri, l’editore. La politica einaudiana? «C’era una situazione tesissima, la cultura doveva essere einaudiana. Io ero al centro di un mondo di cultura solidissima, ma ero fuori dalla politica. Sono arrivato nell’editoria da figlio di papà, ero un agnellino, non un enfant prodige, sono stato favorito dalla sorte in gioventù e a volte finisco per non rendermi conto che ho vissuto un’epoca facile, piena di persone intelligenti: ce ne fosse una soltanto, oggi, accidenti... Invece siamo proprio a terra, lo dice il mondo. Tutti gli imbecilli fanno almeno un libretto e poi corrono in televisione, persino i politici, ma non me ne frega niente, non c’è bisogno di parlarne». Perché no, parliamone pure. «Io posso sembrare un po’ nervoso nel rispondere, o polemico, ma quando penso al Sessantotto... In Francia è durato due o tre giorni, in Germania li hanno accoppati, da noi è arrivato tardi, alla fine del ’69, ed è durato un tempo infinito: una cultura del cavolo, volevano fare gli eroi senza i fucili dei partigiani». E oggi? «Quella del 68 è la stessa cultura di tanti ministri voltagabbana di oggi. Potrei dare lezioni sulla moralità degli inglesi o dei francesi, e sulla fragilità dell’intellettuale italiano... Io avevo i migliori con me. Raboni è stato il redattore migliore: onesto, intelligente, acutissimo, molto fragile e rosso di colore. In casa editrice era il rivoluzionario. Abbiamo dominato la scolastica e la letteratura: un epos che adesso non potrebbe certo ripetersi». Il Garzanti tre si schermisce, mescola rabbia e fierezza: «Sono entrato nell’editoria nel ’ 54 e nel giro di un anno la Garzanti è diventata la casa editrice più importante di Milano se non d’Italia. Bisognerebbe farne la storia, ma ho buttato via tutto e non ho memoria. Ho sempre odiato lo spirito della conservazione». Forse per questo, quando parla dei «suoi», Garzanti al passato remoto preferisce il passato prossimo. Attilio Bertolucci. «è stato il mio mentore, perché io non sapevo nulla o quasi». E poi Pasolini. «Un vero amico. Quando abbiamo pubblicato Ragazzi di vita, nel ’55, era un momento molto pericoloso per la censura. Gli ho chiesto di rivedere alcune parti troppo forti, ma fu processato ugualmente. Un processo ridicolo. Pasolini era il contrario del sessantottismo. Io detesto il tu. Ci davamo del lei, da editore e autore. Io gli dicevo: lei mi dà una merce e io la pago, che poi lei sia un amico è un altro conto. Detesto l’abitudine einaudiana dell’affettuosità». Il che non ha evitato gli scontri. «Con Pasolini abbiamo litigato per una questione di gelosia letteraria. Non gli andava che pubblicassi Bevilacqua. Ridicolo. Ma l’amicizia è rimasta. Un giorno l’ho accompagnato a Roma in macchina, ho parcheggiato davanti all’albergo, lui è sceso, mi ha aperto la portiera e mi ha abbracciato in modo tragico, tanto che mi sono spaventato. Venti giorni dopo a Parigi ho aperto il giornale e ho visto che era morto. Ma non voglio ricordare, non mi occupo delle vicende del mio cortile, preferisco che lo facciano altri, se vogliono». E ora, Giulio Einaudi. «Non l’ho mai conosciuto, ma era un presuntuoso senza cultura propria. Ha imposto la sua forma di presunzione a tutta la cultura italiana. Era un comunista megalomane. Una volta avevamo un appuntamento a Torino per discutere di Volponi e non si fece trovare. Mi dissero che era a Parigi. Pochi mesi prima che morisse ci siamo incontrati in spiaggia, a Varigotti, ci siamo messi spalla a spalla senza neanche salutarci». Gli autori? «Io ero il direttore d’orchestra, avevo il senso della cultura del mio tempo. L’unico uguale era Bompiani. Io non mi sentivo una prima donna come Einaudi. L’editore deve fare, costruire...». Truman Capote? «Era talmente femminile... Una volta sono andato a trovarlo in albergo, parlava mentre lavorava a maglia. Mi sono detto: in fondo è una bella donnina». Gadda: «Straordinario. Con lui io ero un ragazzino che giocava tra le gambe del gigante. Era falso e cerimonioso. Io ero molto giovane e lui mi scriveva dandomi dell’Illustrissimo. A ogni presentazione che si teneva a Roma, si faceva trovare in doppiopetto sulla porta e mi faceva l’inchino». Calvino: «Mi si è offerto nell’83, era chiuso e restio. Mai avuto confidenza con lui. Era grande ma non era l’unico...». Volponi: «Un matto nobilissimo. Focoso, feroce, un po’ balordo. Una volta, a proposito di Corporale, mi insultò per strada... Un amico, specie negli ultimi anni». Garzanti uno + Garzanti due + Garzanti tre: un caratteraccio. «È una parola troppo gentile, per questo credo di non meritarmela. E poi, ognuno ha i propri difetti». «Era il contrario del sessantottismo, litigammo per una gelosia letteraria» L’ autore Livio Garzanti (nella foto) è nato a Milano nel 1921. Dal 1954 è alla guida della casa editrice fondata nel’ 36 dal padre Aldo, dopo che questi aveva rilevato le Edizioni Treves autore dei romanzi «L’amore freddo» (ripubblicato di recente da Viennepierre, pp. 144, 12) e «La fiera navigante» (Garzanti) e dei racconti «Una città come Bisanzio» (Longanesi) Il suo nuovo libro, «Amare Platone», è uscito in questi giorni da Garzanti (pagine 124, 11) Paolo Di Stefano