Il Sole 24 Ore 07/06/2006, pag.1-10 Roberto Perotti, 7 giugno 2006
Gli orari di lavoro tra miti e falsità. Il Sole 24 Ore 7 giugno 2006. Chi decide quanto e come si lavora in Europa? In questi giorni si stanno scontrando due filosofie: da un lato il Regno Unito, che vuole mantenere la possibilità di lavorare fino a 65 ore settimanali; dall’altro il Parlamento europeo, Francia, Spagna e altri Paesi, che vogliono imporre a tutta l’Unione europea un limite massimo di 48 ore
Gli orari di lavoro tra miti e falsità. Il Sole 24 Ore 7 giugno 2006. Chi decide quanto e come si lavora in Europa? In questi giorni si stanno scontrando due filosofie: da un lato il Regno Unito, che vuole mantenere la possibilità di lavorare fino a 65 ore settimanali; dall’altro il Parlamento europeo, Francia, Spagna e altri Paesi, che vogliono imporre a tutta l’Unione europea un limite massimo di 48 ore. Quali sono le motivazioni? importante distinguere quelle "ufficiali" da quelle reali. Una prima motivazione "ufficiale" è di tipo etico: quando il Parlamento europeo votò a favore delle 48 ore, la decisione fu salutata come una "conquista di civiltà", quasi si trattasse di difendere masse di lavoratori sfruttati come ai tempi di Marx ed Engels. Eppure, se chiedete agli inglesi ciò che essi trovano immorale sono i tassi di disoccupazione e inoccupazione a cui le rigidità dei mercati del lavoro francesi e italiano condannano quote scandalose di giovani e donne. Una seconda motivazione "ufficiale" è che orari più brevi favoriscono la produttività: si lavora meno, ma meglio. I fatti mostrano che è vero l’esatto contrario: un lavoro di un team di studiosi europei guidati da Francis Kramarz, e presentato a un recente convegno della Fondazione Debenedetti, mostra che nelle aziende tedesche in cui è stato negoziato un allungamento dell’orario di lavoro la produttività è salita, mentre in quelle francesi in cui è stato imposto l’accorciamento dell’ orario la produttività è diminuita. Una terza motivazione "ufficiale" si basa su un perenne beniamino di politici e sindacalisti: l’illusione che ci sia una quantità di lavoro data e quindi che ridurre l’orario di lavoro ampli il numero degli occupati.Studi su studi hanno mostrato la fallacia di questa posizione: in tutti i Paesi in cui la riduzione dell’orario di lavoro è stata dettata dall’alto l’occupazione è, semmai, calata. Il motivo è semplice: la sua diminuzione per legge accresce il potere contrattuale dei sindacati, che lo usano a beneficio delle retribuzioni e non dell’occupazione. Non è un caso se Ségolène Royal, favorita per la candidatura socialista alle presidenziali francesi del 2007, in questi giorni ha avuto il coraggio di rompere un tabù della sinistra e criticare la settimana lavorativa di 35 ore. In realtà, lo scontro sull’orario di lavoro trascende l’importanza economica della questione, probabilmente limitata. Solleva invece due domande fondamentali: quali campi dovrebbero essere di competenza dell’Unione europea e quali dei singoli Stati? Fino a che punto uno Stato è libero di scegliere il proprio "modello sociale"? La teoria economica, e il buonsenso, ci dicono che un’organizzazione sopranazionale qual è l’Ue dovrebbe intervenire quando vi sia la necessità di coordinarsi per evitare comportamenti opportunistici, oppure quando l’azione di uno Stato abbia riflessi sul benessere di un altro. Un esempio del primo caso è la politica commerciale: è difficile convincere una nazione a ridurre i dazi se gli altri non fanno altrettanto. Per questo il mercato unico europeo è il frutto di interventi dall’alto durati oltre tre decenni. Gli esempi del secondo caso sono, teoricamente, infiniti: è sempre possibile asserire che il comportamento di uno Stato ha "esternalità"sugli altri. Ma quanto sono ragionevoli queste asserzioni? Il Paese A ha un mercato del lavoro più flessibile, quindi è più competitivo e, a lungo andare, attrae più capitali. Ciò impedisce al Paese B, con un mercato del lavoro più rigido e protetto, di perseguire il proprio modello sociale. Che ci piaccia o no, le aziende di automobili coreane preferiscono aprire le loro fabbriche dove il lavoro è più flessibile e costa meno. Il problema di B è tanto più grave quanto più il capitale e il lavoro possono lasciare B per andare in A, e non è un caso che sia emerso con forza in questi anni in cui è aumentata la mobilità dei fattori. Si può dunque affermare che la flessibilità di A vada ridotta o eliminata perché ha un effetto esterno negativo su B? Questo principio è ovviamente pericoloso, ma politicamente è il nocciolo del problema. E ha ispirato la Costituzione europea (ormai defunta) e la strategia di Lisbona (ancora in vita) che prevedono un pesante e ingiustificato interventismo centrale sulle politiche sociali e del lavoro dei singoli Stati, così da difendere i modelli sociali continentali e sud europei, minacciati dalla crescente mobilità di beni, servizi, lavoro e capitale. Da alcuni anni gli economisti dibattono sul perché nei Paesi anglosassoni si tende a lavorare di più. Una risposta che riceve sempre più consensi è, banalmente, la cultura: francesi e spagnoli attribuiscono al tempo libero più valore di americani o inglesi. Questo può avvenire per svariate ragioni: più ore per la famiglia in certe culture o più per le vacanze in altre, e via dicendo. Ma, come nota il lavoro di Kramarz, ognuna di queste motivazioni implica modalità di orario lavorativo differenti: c’è chi preferisce lavorare poche ore per tanti giorni, chi il contrario; chi vuole interruzioni alla carriera per seguire un corso di fotografia e chi il part time. Ecco perché è insensato tentare di imporre un modello uniforme a un continente che va dalla Lapponia a Gela. Roberto Perotti