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 2006  giugno 07 Mercoledì calendario

Simula i falli, evadi il fisco. La Stampa 7 giugno 2006. Il problema del calcio, o il suo destino, è quello di essere diventato una ragione di vita e dunque lo specchio di essa

Simula i falli, evadi il fisco. La Stampa 7 giugno 2006. Il problema del calcio, o il suo destino, è quello di essere diventato una ragione di vita e dunque lo specchio di essa. Un campionato è un’esistenza, e anche una partita soltanto, novanta minuti di lotta per la sopravvivenza. Quando gli italiani vivono, parcheggiano in doppia fila, infrangono i limiti di velocità, scavalcano le file al supermercato, non pagano il canone alla Rai. E più su e più su. Qualche anno fa, proprio un giocatore della Juventus, Gianluca Pessotto, restituì all’avversario una rimessa laterale che il guardalinee gli aveva attribuito per errore. Fu dichiarato santo, e con qualche motivo. La scorsa stagione, un centrocampista della Roma, Daniele De Rossi, realizzò un gol con la mano e trenta secondi dopo, assediato da quelli dell’altra squadra, ammise la truffa. Non fosse stato assediato, come sarebbe andata? Comunque fu dichiarato santo anche lui, e giustamente. Nel settembre del 2003, il Bologna vinse per uno a zero contro l’Udinese con una rete segnata col pugno sinistro dall’argentino Guglielminpietro. L’allenatore del Bologna, Carletto Mazzone, considerato il custode del calcio pulito che fu, dichiarò la sua consueta fiducia agli arbitri e quanto al raggiro disse: «Succede». Succede, dunque, di vincere con l’imbroglio e se l’arbitro non vede, vale. Un monumento dello sport italiano, il milanista Franco Baresi, ora inguaiato per questioni con le banche, quando i rivali contrattaccavano alzava automaticamente il braccio destro per segnalare il fuorigioco. Che ci fosse o no, lui lo alzava. Siccome era un monumento, spesso i guardalinee alzavano anche loro il braccio, provvisto di bandierina, pure nel dubbio. Si è citato Mazzone e Baresi perché non sono due uomini qualsiasi. Sono idoli. Poi ci sono tutti gli altri. Basta prendere un partita a caso, fra mille, e analizzarla. Si cerca di sopraffare il nemico con la furia atletica e con l’abilità tecnica e con l’intero campionario previsto alla voce frode. Gli attaccanti si buttano appena entrano in area per prendersi il rigore, i difensori menano pedate ad altezza di ginocchio e poi giurano di non essersi mossi, uno chiede l’ammonizione dell’altro, l’altro pretende la rimessa che non gli spetta, sui corner ci si trattiene per la maglia, sulle punizioni le barriere rubano distanza centimetro dopo centimetro. Sono eventi accettati comunemente come parte integrante della competizione. Di recente il giovane scrittore americano Dave Eggers ha scritto: «Il più importante ostacolo alla popolarità / del calcio è l’elemento della simulazione. Gli americani potranno essere in genere arroganti, ma c’è una presa di posizione, nella quale mi riconosco anch’io, ed è quella di aborrire in maniera assoluta i simulatori di falli in area. Esistono pochi esempi di sport americani in cui il gioco offra occasioni di simulazione, men che mai in cui sia tollerata». Infatti gli americani non evadono il fisco. Che il football non fosse uno spettacolo ma il riassunto domenicale della fatica di vivere e di vincere, se il caso con il dolo (tengo famiglia), non l’ho capito dalle intercettazioni di Luciano Moggi, ma molto tempo prima direttamente dai tifosi. Se nove tifosi su dieci preferiscono vincere uno a zero una partita brutta piuttosto che pareggiarne tre a tre una entusiasmante, la fine è decretata. Se un caro e integerrimo amico, come me sostenitore del Torino, vuole vincere tutti i derby con la Juve per uno a zero con un rigore inesistente al novantesimo (io vorrei straziare la Juve sempre per quattro a zero), la fine è ridecretata. Da lì in poi per qualcuno o per tanti ogni cosa è ammessa, e ogni scusa è buona. Quando una squadra rientra sconfitta, spesso i tifosi vanno all’aeroporto a contestare e capita che picchino i giocatori. Allora si sentono i dirigenti dire: «I tifosi hanno il diritto di contestare...». Basta, il calcio è morto. E’ diventato più importante del lavoro e della famiglia, è già altrove, in una zona di guerra e senza regole. Non c’è nessun diritto alla contestazione. C’è il diritto a comprare il biglietto dello stadio e non ricomperarlo più se lo spettacolo (o il risultato) è insoddisfacente. Non s’è mai pensato che uno andasse a vedere un film di Nanni Moretti, e se il film era brutto gli rigasse la macchina. Se la simulazione è parte del gioco e il ricatto dei tifosi è accettato, tutto quello che viene poi è conseguente. Anche Moggi. Naturalmente le colpe sono diverse, e infatti a piazzale Loreto sono finiti il Duce e pochi altri, non tutti. Ma l’altro giorno passeggiando per Roma (via degli Avignonesi) ho visto un ragazzo uscire da una bottega di barbiere, soffiarsi il naso e gettare a terra il fazzoletto di carta. Può anche darsi che quel ragazzo ammiri molto Greenpeace e le battaglie contro il nucleare. E allora vengono in mente quelli che si imbufaliscono col vigile se pigliano la multa per divieto di sosta e lo invitano a darsi più da fare coi pirati della strada. Dunque fingere di essere stati sgambettati è falsare il campionato, fare gol con la mano è falsare il campionato, truccare i bilanci per pagare il fuoriclasse è falsare il campionato, contraffare i passaporti per tramutare in comunitari gli extracomunitari è falsare il campionato. Moggi falsa il campionato. E dire «così fan tutti» non vuol dire «assolviamo tutti». Vuol dire proporre una diagnosi più ampia, soffermarsi sullo scandalo escludendo l’ipotesi dei salvati e dei sommersi, ragionare ampiamente su un sistema che non funziona e non soltanto nei suoi capibastone, pensare se sia possibile anzitutto cambiare cultura. Ammettere che piazzale Loreto e Hammamet non bastarono per lavare tutte le coscienze. Mattia Feltri