Corriere della Sera 07/06/2006, pag.37 Sergio Romano, 7 giugno 2006
Marzo 1936: l’Italia diventa autarchica. Corriere della Sera 7 giugno 2006. Lei afferma che le sanzioni furono, tutto sommato, poco efficaci
Marzo 1936: l’Italia diventa autarchica. Corriere della Sera 7 giugno 2006. Lei afferma che le sanzioni furono, tutto sommato, poco efficaci. Beh, l’autarchia ci costrinse, fra l’altro, a fabbricare le scarpe con poco cuoio e molto cartone. Cosicché mia madre, quando mi lasciava uscire, mi raccomandava di non rovinarle partecipando alle partite di calcio che i miei coetanei organizzavano con palloni improvvisati. Ovviamente non resistevo alla tentazione e, al rientro, spesso le buscavo di santa ragione. Giorgio Vergili Caro Vergili, fra le sanzioni e l’autarchia esiste effettivamente un nesso molto stretto. Il discorso di Mussolini sulla politica autarchica, fu pronunciato all’Assemblea delle Corporazioni, in Campidoglio, il 23 marzo 1936, quattro mesi dopo la «punizione» inflitta all’Italia dalla Società delle Nazioni. Il discorso comincia per l’appunto con un cenno all’«assedio» e annuncia una fase della storia italiana che «sarà dominata da questo postulato: realizzare nel più breve termine possibile il massimo possibile di autonomia nella vita economica della Nazione». Per raggiungere lo scopo, disse Mussolini, occorreva anzitutto «fare l’inventario». Cominciò dai combustibili liquidi e ammise che le ricerche nel territorio nazionale non avevano dato «risultati apprezzabili». Per il momento, quindi, occorreva fare affidamento sulla idrogenazione delle legniti, sull’alcol proveniente da prodotti agricoli, sulla distillazione delle rocce asfaltifere. Per i combustibili solidi disegnò un quadro più promettente: l’uso del carbone nazionale e l’elettrificazione delle ferrovie avrebbero consentito una drastica riduzione del carbone importato (dal 40 al 50%). Per i metalli fu ancora più ottimista. Parlò delle miniere di ferro, con particolare riferimento a quelle dell’Elba e di Cogne. Parlò della bauxite e della leucite, necessarie alla fabbricazione dell’alluminio, e degli altri minerali presenti nel territorio italiano. I tessili occuparono, nell’inventario, uno spazio modesto. L’Italia avrebbe ripreso la coltivazione del cotone e avrebbe dato una particolare importanza allo sfruttamento della ginestra. La parte più interessante del suo discorso, tuttavia, fu quella in cui dette qualche indicazione sul «piano regolatore» dell’economia italiana. Non fu il primo piano quinquennale sovietico, terminato due anni prima, ma si trattò pur sempre di un progetto con forti connotazioni stataliste e sociali. Il commercio sarebbe rimasto ai privati, ma le banche e la grande industria avrebbero operato «nell’orbita dello Stato». Ammise la possibilità di imprese miste, costituite con l’apporto di capitali privati, ma aggiunse che esse non avrebbero avuto, giuridicamente, il carattere delle industrie private. Parlò infine di «elevazione morale delle masse», della necessità di «accorciare le distanze fra le diverse categorie di produttori». E concluse dichiarando che «nel tempo fascista il lavoro, nelle sue infinite manifestazioni, sarebbe diventato il metro unico col quale si misura l’utilità sociale degli individui e dei gruppi». Sono propositi e programmi che sarebbero stati condivisi da molte forze politiche antifasciste e che appaiono in alcuni articoli della Costituzione italiana. Dietro questo disegno autarchico e corporativo vi era naturalmente la guerra. Negli anni seguenti, mentre la prospettiva del conflitto diventava sempre più vicina, cominciarono ad apparire sul mercato il lanital, il caffeol, l’Ital Rayon, l’orbace, i tessuti di ginestra, il vinidur, la benzina sintetica e altri surrogati, molti mediocri, altri frutto di ricerche che daranno nel dopoguerra risultati molto interessanti. Le maggiori innovazioni in questo campo, comunque, non furono prodotte in Italia, ma in Germania e in in Gran Bretagna, vale a dire nei Paesi che avevano una industria chimica molto più sviluppata della nostra. Ancora una osservazione, caro Vergili. L’autarchia divenne in Italia e in Germania un programma ideologico, strettamente associato ai caratteri nazionalisti e militaristi dei due regimi nella seconda metà degli anni Trenta. Ma la tendenza è presente, soprattutto dopo la crisi del 1929, in tutte le economie industrializzate europee. Fu necessario attendere la fine della guerra e la progressiva liberalizzazione del commercio internazionale perché autarchia divenisse una brutta parola. Mi chiedo tuttavia se non sia ancora la segreta filosofia economica di tutti coloro che hanno paura della globalizzazione. Sergio Romano