La Repubblica 07/06/2006, pag.48-49 Alberto Arbasino, 7 giugno 2006
Pascali geniale e vitale. La Repubblica 7 giugno 2006. Pino Pascali. Una grossa motocicletta percorre i sottopassaggi del Corso d´Italia, verso la via Nomentana: sulla sua destra, una notte di settembre del 1968
Pascali geniale e vitale. La Repubblica 7 giugno 2006. Pino Pascali. Una grossa motocicletta percorre i sottopassaggi del Corso d´Italia, verso la via Nomentana: sulla sua destra, una notte di settembre del 1968. Una "media cilindrata", negli stessi sottopassaggi, nella stessa direzione, tenta invece una improvvisa "conversione a U", su un senso unico e in curva. Lo scontro è violentissimo. Il motociclista si spacca il cranio. Però, forse perché «motocicletta» equivale a sfrenatezza mentre «media cilindrata» corrisponde a buon senso, gli "astanti" e gli "accorsi" e la polizia ricoprono il corpo con un telo; e si commenta «è morto uno zingaro». Pino Pascali vestiva infatti pantaloni neri e cinturone a borchie, stivaletti bassi e maglioni di molti colori. Aveva pelle scura, pugliese, e ricci nerissimi, a cavatappi. Fosse stato invece vestito "da artista", come nella Bohème e in via Margutta, quella sera, sarebbe ancora vivo?... Chissà, avesse magari portato almeno un baschetto, una berretta di velluto, un golettone col fiocco, un pompon, probabilmente qualcuno avrebbe sospettato di trovarsi di fronte a un personaggio fra i più importanti e più seri nell´arte contemporanea, conosciuto a New York e a Parigi, lodatissimo da Brandi e da Argan. Secondo una leggenda immediata, una persona amica passa per caso, riconosce la moto, fa di tutto per accelerare il trasporto a un ospedale, e poi a un altro, stacca l´assegno indispensabile a mettere in moto le cure... Ma chiunque sa che bisognerebbe muovere il meno possibile chi ha il cranio spaccato. Pino Pascali aveva una fibra fortissima. Si dibatte per giorni senza mai riprendere conoscenza. Poi muore lo scultore forse più dotato della generazione giovane, nella stagione stessa in cui una sala straordinaria (e forse un premio) alla Biennale veneziana gli avrebbe tirato addosso un grosso successo in tutto il mondo. Questa sua sala alla Biennale del 1968, presentata da Palma Bucarelli, Pascali l´aveva appassionatamente voluta, naturalmente. E mai si sarebbe sognato di mandare un´opera a un´esposizione per poi voltarla e rivoltarla o impacchettarla secondo le mode e le convenienze. Eppure si era appena riusciti a darvi uno sguardo, arrivando a quel vernissage in una Venezia sconvolta dalla manifestazioni "alla parigina" e dalle manganellate "alla Scelbere". I giovani insorgevano, i poliziotti picchiavano, i vecchi autori accorrevano e commentavano, le egemonie periclitavano, slogan e documenti si moltiplicavano; e intanto la Biennale ’68 diventava una Biennale altra. Una fantastica rassegna di imballaggi e involucri senza nome, che con un po´ di previdenza si sarebbero dovuti conservare, per venderli a prezzi pazzeschi nelle grandi aste future. E anche una memorabile sfilata o carrellata di corpi, comportamenti, allestimenti, performance e body-art ante-Christo e pre-Beuys... Che "azioni". Che "installazioni". Fra Novelli che voltava i suoi quadri contro la parete, e Leoncillo che rivestiva di carte e scotch le sue ceramiche, Pino arrivava carico di fogli di compensato in spalla, martello e chiodi in mano, e inchiodava addirittura le porte. Ma quella sala era piena di capolavori. Recentemente e parzialmente esposti alla Galleria Nazionale d´Arte Moderna, ma allora spesso visitati all´Attico di Sargentini in via Beccaria, che era però un garage (o talvolta scuderia d´arte, coi cavalli di Kounellis), sotto casa mia in via Gianturco. Dunque s´andava giù festosi con l´inimitabile Alexandre Iolas, vecchio furetto gallerista illustre che a Milano si trovava ogni sera negli allegri locali, fra Allen Ginsberg in camicione da sant´uomo e Rudi Nureyev in nappe lucenti, e altri instancabili in cerca di soddisfazioni e informazioni su misure e pericoli. Giù all´Attico, invece, enormi cannoni e immani creste di tele incollate su mostri marini centinati a brani. Tra pouf e tappeti di pelo acrilico e paglietta di ferro con crepitii; e i «bachi da setola» assemblati infilzando spazzoloni in nylon da Upim... Estremi prodotti di una carriera geniale e vitale apparentemente inarrestabile... Addirittura, non «Il cielo in una stanza» come da canzone, ma «IL MARE» in vasca al Flaminio. Li chiamavamo «i materiali inquietanti». Tubi e gomme e polistiroli e poliuretani e plexiglas e perspex e vinilpelli ridipinte e industriali di Gino Marotta e Franco Angeli e Mario Ceroli e Fabio Mauri e Cesare Tacchi e Tano Festa ed Eliseo Mattiacci... Fra l´Attico sottocasa e la Tartaruga di Plinio sopra il "Bolognese": i momenti più significativi di un attimo struggente nelle nostre arti: "figurative"? Forse che sì, forse che no... Quando il gran movimento Pop era una love story commerciale fra un gruppo d´artisti di Leo Castelli e l´iconografia dei prodotti da supermarket... Mentre certi nostri vecchi (tipo Ettore Colla) trovavano e raccattavano soprattutto materiali anonimi, naturali o artificiali o dismessi, senza griffe né logo, ma non meno intensamente caratteristici di un nostro certo ora e qui. Così, dopo aver buttato via per sempre scalpelli e pennelli, in circuiti ormai rapidissimi di "ripescaggi" e "prestiti", cosa veniva realmente "prima"? L´invenzione "pura" dell´artista avanzato? L´applicazione pubblicitaria del diplomato designer? La promozione intellettuale delle scorie dell´Italsider? O magari le strutture primarie accidentali create dall´industria delle resine sintetiche? A questa recente mostra di Pascali si è rivisto il famoso «Primo piano labbra» madornale citazione dell´«Observatoire» di Man Ray, dove un´identica bocca plana da un cielo a pecorelle su un bosco notturno. Giulio Bollati lo scelse per la copertina della mia Bella di Lodi (Einaudi, 1972). E allora il fondo era di un carnicino "mosso": come del resto appare sulla copertina dell´attuale catalogo. Però, in mostra, il fondo è diventato bianco lucido, compatto come di smalto. Vidi Pino quasi alla fine. Filmavo per un programma RAI, «Matita blu», il modo di operare di questi artisti, nel loro ambiente di lavoro. In un immenso garage nomentano, pieno di ferri e di setole, lui in pochi minuti mi intrecciò un plaid di paglietta da lavandino, chiamato «Penelope». La motocicletta era immanente e "astante" in un angolo. Si filma anche quella? Ribatté: «I mezzi di trasporto non fanno parte del modo di operare». Alberto Arbasino