Corriere della Sera 01/06/2006, pag.39 Sergio Romano, 1 giugno 2006
Giuseppe Siri, principe vescovo di Genova. Corriere della Sera 1 giugno 2006. Vorrei un suo giudizio sulla contraddittoria figura del Cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, di cui a breve ricorrerà il centenario della nascita
Giuseppe Siri, principe vescovo di Genova. Corriere della Sera 1 giugno 2006. Vorrei un suo giudizio sulla contraddittoria figura del Cardinal Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova, di cui a breve ricorrerà il centenario della nascita. Esistono libri sulla sua persona? Christian F. Carpani - Milano Caro Carpani, ho abitato a Genova per parecchi anni e ho conosciuto Siri negli anni in cui la borghesia industriale e mercantile lo chiamava scherzosamente la «First Lady» della città. Ogniqualvolta avevo occasione di sentirlo parlare mi colpiva una straordinaria combinazione di sussiego, solennità, alterigia, paternalismo e familiarità, toni aulici e toni popolareschi, frasi dotte ed espressioni dialettali. Parlava come un manuale teologico (aveva insegnato per molti anni al seminario vescovile), ma poteva accentuare l’accento genovese e usare parole volutamente sciatte, un po’ rudi. Non credo che i toni popolareschi fossero l’insopprimibile residuo delle sue origini sociali. Credo piuttosto che negli anni trascorsi in curia, come vescovo ausiliario del vecchio cardinale Boetto, avesse imparato a recitare la parte del principe vescovo. Aveva capito che a Genova un aristocratico deve parlare il dialetto e deve avere un rapporto diretto con il popolo scavalcando i mercanti, gli armatori, gli industriali, i banchieri. Ma deve essere anche ieratico, autoritario e principesco. Fu questo stile che gli permise di regnare su Genova per quarant’anni e di mobilitare contro i comunisti una larga area di consenso popolare. Fece il suo apprendistato di leader religioso fra il 1943 e il 1945 quando le circostanze lo costrinsero a recitare una parte classica nella storia d’Italia: quella del vescovo che protegge la pieve contro i barbari e può essere ora umile e implorante, ora energico e minaccioso. In alcune conversazioni con Benny Lai, pubblicate in un libro del 1994 edito da Laterza («Il Papa non eletto. Giuseppe Siri, Cardinale di Santa Romana Chiesa»), raccontò di avere avuto una tempestosa conversazione con un comandante partigiano che non voleva permettere il transito di un convoglio di viveri. A un certo punto, raccontò a Lai, perse la pazienza: «Vomitai tutte le parolacce udite da bambino nei vicoli di Genova e che mai avevo usato, parlai il linguaggio dei facchini e dei portuali». Poco tempo dopo, dovette trattare con i tedeschi per evitare la distruzione del porto di Genova al momento della ritirata. Poiché la conversazione si prolungava inutilmente, si alzò, dette un pugno sul tavolo e disse, quasi urlando: «Vi garantisco che se toccherete il porto di Genova nessun tedesco ne uscirà vivo perché lei sa meglio di me che prestissimo scapperete tutti». Un altro pugno sul tavolo lo dette durante un altro negoziato, quello che precedette l’elezione di Giovanni XIII. Raccontò a Benny Lai: «Prima dell’inizio del Conclave, perché solo di quel periodo posso parlare senza cadere nella scomunica, venne un tale a sondarmi circa l’eventuale candidatura dell’arcivescovo di Milano (Giovanni Battista Montini, ndr). Detti un pugno sul tavolo così forte da far saltare la pietra dell’anello che portavo al dito». Fu esattamente l’opposto di Paolo VI. Mentre Montini era sensibile alle suggestioni spirituali di Maritain e alle tesi «democratiche» dell’intellighenzia cattolica francese sul ruolo dei laici nella vita ecclesiastica, Siri era ostile alle influenze francesi, tedesche, olandesi, e deciso ad affermare l’influenza della Chiesa nella società e della gerarchia all’interno della Chiesa. Mentre Montini accompagnò benevolmente l’apertura a sinistra della Dc, Siri fece del suo meglio per evitare l’alleanza con i socialisti e utilizzò a questo fine la Conferenza episcopale sino al giorno in cui Paolo VI gliene tolse la presidenza. Combatté per le sue convinzioni in ogni sede in cui ebbe posizioni di autorità, ma perdette quasi tutte le sue battaglie e dovette accettare il Concilio, il centro-sinistra, la solidarietà nazionale, il populismo becero di una parte della Chiesa post-conciliare, la riforma della liturgia, la sciatteria vestimentaria dei preti in maglione e giacca a vento. Perdette soprattutto la battaglia per un trono che fu, più di una volta, a portata di mano e che in due circostanze, forse, avrebbe potuto avere. Si richiuse nella sua diocesi dove continuò a difendere la «sua» Chiesa opponendosi alla costruzione di altari posticci, alla distribuzione dell’eucaristia ai fedeli in piedi, all’abbandono dei paramenti preziosi, al clergyman per i sacerdoti e ai pantaloni per le donne. Nella sua ultima conversazione con Benny Lai, il 18 settembre 1988, lasciò intendere tutta la sua amarezza per ciò che la Chiesa era diventata dopo la morte di Pio XII. Lo fece indirettamente chiedendo perdono a Dio per non avere accettato l’offerta di elezione nei primi due Conclavi a cui aveva partecipato. «Ho fatto male perché avrei evitato di compiere certe azioni... Vorrei dire, ma ho timore a dirlo, certi errori. Quindi ho avuto un grande rimorso e ho chiesto perdono a Dio. Spero che Dio mi perdoni». Sergio Romano