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 2006  giugno 05 Lunedì calendario

Il Brasile? avanti duecentocinquant’anni. Corriere della Sera 5 giugno 2006. Per i Mondiali è ormai questione di ore

Il Brasile? avanti duecentocinquant’anni. Corriere della Sera 5 giugno 2006. Per i Mondiali è ormai questione di ore. Questo è il momento in cui tutti, esattamente tutti i partecipanti e i popoli che hanno dietro, pensano che vincere non è impossibile. il momento del sogno, il vero grande vento che ha sempre soffiato alle spalle del calcio. Niente nello sport è altrettanto irrazionale. Negli sport individuali non esistono il Chievo o la Grecia. Vince il più forte. Negli sport di squadra anche (o almeno molto spesso) perché hanno regole che sono ritmi, equilibrio, armonia. Il basket ha i suoi «passi», il calcio è disordine, improvvisazione, naturalezza. Ognuno ha il suo modo di giocare e segnare. Davvero non esiste un altro sport capace di reggere tanta incompetenza. Possono giocare tutti. Non serve essere alti due metri o pesare ottanta chili. Il più grande giocatore della storia era alto un metro e sessantanove e ha sempre avuto la tendenza a ingrassare. Se lanciate una palla in mezzo a un gruppo di bambini, la prenderanno a calci e in poche battute saranno in grado di giocare una piccola partita, comunque vera, con piccoli dribbling, piccoli tiri e piccoli gol. Perché per il calcio non serve niente che non sia dovunque. Giocare con le mani significa invece organizzazione, evoluzione, distinzione. Questo è anche il motivo principale per cui gli inglesi prima e soprattutto poi gli americani preferirono il rugby con i suoi derivati: perché giocare con i piedi era diventato così popolare alla fine del milleottocento da essere ormai davvero il gioco del popolo. Ma se tutti in queste ore a vario titolo hanno diritto a credere di poter vincere il Campionato del Mondo, c’è chi come noi italiani, crede di averne qualcuno in più. Eppure veniamo dal momento più oscuro della nostra storia. Non avevamo mai bucato due grandi manifestazioni di seguito come abbiamo fatto in Corea e in Portogallo. Fra i quaranta giocatori migliori, dieci a stagione, scelti negli ultimi quattro anni dai tecnici delle nazionali di tutto il mondo (World player Fifa), c’è solo un giocatore italiano, Paolo Maldini, al nono posto. Non c’è dubbio che esprimiamo un grande campionato, infatti abbiamo otto giocatori di squadre italiane sui venti degli ultimi due anni. Ma il calcio di nessuna grande nazione è più quello che il campionato esprime. Dieci anni di apertura incondizionata delle frontiere hanno veramente cambiato il modo di giocare e di pensare il calcio. L’Italia è ancora abbastanza vicina a se stessa perché ha continuato a comprare giocatori da nazioni da cui già comprava (soprattutto Brasile e Argentina). Ma ci sono nazioni come l’Inghilterra, patria del calcio e di un modo naturale e barbaro di giocarlo (il famoso palla lunga e pedalare), che sono adesso laboratori sperimentali in perpetuo movimento. Un giocatore su due in Inghilterra è africano. L’africano dal punto di vista fisico è il giocatore ideale perché ha la forza e la stazza di un bianco corpulento e l’agilità di un bianco gracile. In più una flessibilità naturale che lo porta a dare tempi molto personali al rapporto con il pallone. La mescolanza delle due grandi razze non solo ha cancellato il calcio inglese propriamente detto trasformandolo in un’avanguardia naturale, ma è da sempre alla base della «Forza» nel calcio. Vi siete mai chiesti cosa ha fatto del Brasile la nazione eternamente migliore? Una cosa molto semplice. Il Brasile è l’unica grande nazione a poter mescolare bianchi e neri. Gli europei sono solo bianchi, gli africani solo neri. Perfino gli argentini, altro grande fenomeno naturale del calcio, sono quasi solo di razza bianca. I brasiliani hanno cominciato duecentocinquant’anni fa dove gli altri stanno arrivando adesso. Naturalizzarono centinaia di migliaia di (schiavi) africani. Non lo fecero per il calcio, c’era semmai un continente da coltivare, ma ai fini del calcio la differenza è sottile. I neri africani sono semplicemente africani di tre secoli fa. La dimostrazione alla rovescia viene dalla Francia. Le naturalizzazioni di magrebini, senegalesi, camerunensi e il resto del loro impero ha fatto della Francia il piccolo Brasile d’Europa. E non a caso la Francia è l’unica ad aver battuto i brasiliani dagli anni Novanta a oggi. Torniamo all’Italia. Quanto abbiamo diritto di sperare? Abbastanza, per una strana ragione. Questo è il tempo del calcio nuovo, del meticciato, di una nuova diversità. L’Italia del dopoguerra è sempre stata una nazione isolata, a metà strada fra il modo di essere argentino e quello nordeuropeo. La nostra scuola è stata una controscuola. Sacchi stesso ha rovesciato il concetto di spazio (attaccarlo per difenderlo) ma ha finito per dare ritmi industriali e spettacolarità allo stesso tipo di cal- cio-contro. In sostanza, partecipiamo da poco alle grandi trasformazioni del calcio, paradossalmente siamo un popolo con alle spalle un calcio giovane perché discretamente trasformato. Oggi si segnano due volte e mezzo i gol che si segnavano negli anni Settanta. In proporzione Riva varrebbe oggi quasi cinquanta gol a campionato. Noi crediamo di essere trascinatori del costume calcistico, in realtà fino a poco tempo fa siamo rimasti dei puri e inascoltati autarchici.  questa pallida novità che porta avanti la nostra speranza. La possibilità di stupire, di prendere di nuovo tutti in contropiede. Nessuno conosce Toni, nessuno conosce Gilardino, pochi si fidano di Totti, ancora meno conoscono De Rossi o un’Italia che attacca con i due terzini. In un torneo lungo sette partite o sei il più forte o devi sorprendere. Questo è il nostro di più: possiamo essere la migliore via di mezzo. Mario Sconcerti