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 2006  maggio 30 Martedì calendario

”Ecco la mia verità, non sono uno spione”. Il Sole-24 Ore, martedì 30 maggio Avvertenza ai lettori: quella che segue non è la verità sul caso di intercettazioni, sicurezza aziendale, servizi segreti, calcio, Laziogate, eccetera eccetera

”Ecco la mia verità, non sono uno spione”. Il Sole-24 Ore, martedì 30 maggio Avvertenza ai lettori: quella che segue non è la verità sul caso di intercettazioni, sicurezza aziendale, servizi segreti, calcio, Laziogate, eccetera eccetera. solo una verità, ma vale leggerla perché è quella - inedita - di Giuliano Tavaroli. Quarantasei anni, dall’81 all’88 carabiniere di punta dell’antiterrorismo milanese, fino a un anno fa potente direttore della sicurezza di Telecom Italia, ora fuori dal gruppo ("Lo hanno coperto d’oro purché se ne andasse", maligna qualcuno all’interno. "I soliti tre anni di stipendio che si danno a un dirigente", precisa lui) perché troppe volte il suo nome è spuntato nell’inchiesta milanese che carsicamente, apparendo e scomparendo, ha lambito fatti tra i più delicati e clamorosi: intercettazioni su scalate bancarie, calcio, elezioni in Lazio (autorizzate? illegali?); spionaggio molto ben retribuito (industriale, politico, personale); dossier (assemblati, conservati, comprati, venduti); privacy (a rischio? calpestata?). Un potente guazzabuglio per ora mediatico, ma presto giudiziario, i cui filoni sembrano tutti ricondurre a questo barbuto ex brigadiere dei carabinieri. "Contro di me accuse ridicole, infondate. Non vedo l’ora che mi chiamino i magistrati - si sfoga Tavaroli -. Quello che c’è di vero è che molta gente non ha gradito alcune scelte dell’azienda che io ho fatto mie e che ho implementato. Figuriamoci, un ex brigadiere che diventa dirigente di Telecom; uno che fa conferenze in Bocconi, che reinventa in termini moderni il mondo della security aziendale, a terrorismo finito e comunismo imploso. Uno che trasforma in una cosa seria il sistema di intercettazioni di giustizia. Chiediamoci perché, una volta accentrato e riformato questo sistema, non c’è più stato un solo episodio di malcostume o una denuncia per violazione di segreti d’ufficio. Prima erano 20-30 all’anno. Qualcuno ha smesso di guadagnarci, direi". L’uomo che arrestò Sergio Segio si sforza di parlare pacato, ma ogni tanto il suo tono si fa concitato: "Sono arrabbiato, sì. Per me, ma molto più per i miei cinque figli, per mio fratello che insegna religione ad Albenga. Ho letto cose assurde sul Cnag, il centro che riceve le richieste di intercettazione dall’Autorità giudiziaria. Dico solo questo: quando dopo l’omicidio di Marco Biagi c’è stato bisogno di investire in sistemi più efficaci di sicurezza, l’azienda si è mossa subito senza fare troppi calcoli prima". Cosa c’entra l’omicidio Biagi? "C’entra eccome. Biagi chiedeva protezione perché diceva di ricevere telefonate di minaccia. Purtroppo, al controllo dei tabulati, queste chiamate anonime non risultavano. Anche per questo ci furono difficoltà nell’assegnazione della scorta. Invece quelle telefonate il povero Biagi le riceveva davvero: solo, dalla rete di gestori non Telecom e che quindi non risultavano sui nostri tabulati. A quel punto, Tronchetti Provera disse basta, staccò un assegno da 13 milioni di euro e il software fu aggiornato in tempi rapidissimi". Allora per Tavaroli è tutto e solo un complotto di invidiosi? Non è forse un suo antico sodale l’investigatore privato Emanuele Cipriani, fornitore di primo piano di Telecom? "Un fornitore di informazioni, certo. Aggiungo: quando sono arrivato io, Cipriani già lavorava per Telecom. E aggiungo pure: uno dei migliori. Anche un avido, ho avuto modo di capire. Veniva pagato a Londra? Perché lavorava su Londra. Soldi in Belgio o in Lussemburgo? E io cosa posso saperne? Le migliaia di file che sta rilasciando ai Pm? E io cosa posso saperne?". Sull’entità delle somme accreditate a Cipriani, somme che hanno stupito i lettori e insospettito i magistrati, il discorso si fa lungo e complicato, ma un esempio è abbastanza chiaro: "Nella vicenda brasiliana, che ha opposto a Telecom il finanziere Dantas, in pochi mesi furono spesi 20 milioni di dollari per spiarci. Sembrano cifre alte, ma è tutto rapportato alla posta in gioco". Proprio non ci sta Tavaroli, a fare la parte del furbo, di quello che s’è allargato avendo a disposizione risorse ingentissime e intorno solo gente o che obbediva o che chiedeva favori. "Io posso aver commesso degli errori come tutti - ragiona a voce alta -. Ma qui mi si vuol far passare per uno spione, mentre ho sempre lavorato per chi mi ha assunto da Italtel, a Pirelli a Telecom; sarei uno che si è arricchito, ma sfido chiunque a trovarmi un euro non guadagnato; sarei un terminale dei Servizi segreti: e non ho mai, dico mai, lavorato per o con loro. Il numero due del Sismi è un mio amico? Molto di più. Ma questo con il lavoro non c’entra". E, riferisce chi lo conosce da vicino, che l’ex brigadiere si scaldi proprio quando si sfiora la figura di Marco Mancini, senza più deleghe dal 15 maggio: "Giorni e notti insieme a dar la caccia ai terroristi. Marco è una figura magnifica, uno da portare nelle scuole per far vedere cos’è un servitore dello Stato. Anche con lui ci siamo persi un po’ di vista, ma lo capisco: ormai chi si avvicina a me resta fulminato. E a lui lo stesso". E si torna al punto: perché? Basta il più classico dei moventi, l’invidia, per spiegare tutta questa frana di carriera e onore? "Per un uomo che si è fatto da solo, che ha sempre e solo contato sulle proprie capacità sì, può accadere. Lo so che ora potrei arricchirmi, trovare consulenze o impieghi d’oro. Potrei persino partecipare ai talk show, ma non è per fare questo che ho lavorato una vita. La verità - si sfoga con gli amici più stretti - è che in questo mondo nuovo e difficile io e le persone per cui ho lavorato abbiamo portato una ventata nuova. Di là del tavolo non abbiamo avuto tanto dipendenti infedeli o concorrenti agguerriti, ma vecchi massoni, tangentari incalliti, corrotti di ogni genere. I magistrati? Fanno il loro lavoro. Qualcuno è più brillante, qualcuno meno; qualcuno cerca di capire, altri solo di finire sui giornali. Ma va bene così. Purché si sbrighino". Non sarà facile, dopo gli arbitri intercettati, i 30mila e passa file che i Pm milanesi cercano di classificare, dopo i percorsi tortuosi di una bella quantità di denaro passato da Telecom a persone di fiducia di Tavaroli, non sarà facile farla finita con uno schiocco di dita: "Ma io - riflette l’uomo-epicentro di questa vicenda - sono ottimista e fiducioso, ho sempre fatto il mio lavoro, solo il mio lavoro. Non credo che verrò punito per questo, né dalla Giustizia né dalla mia azienda". Lionello Mancini (ha collaborato Serena Uccello)