1 giugno 2006
Martedì sera, piazza Palermo, Genova. Dopo cena, intorno alle nove e mezza, due donne escono dal portone di un palazzo, una di loro tiene un sacchetto pieno di spazzatura, lo getta nel cassonetto
Martedì sera, piazza Palermo, Genova. Dopo cena, intorno alle nove e mezza, due donne escono dal portone di un palazzo, una di loro tiene un sacchetto pieno di spazzatura, lo getta nel cassonetto. Si chiamano Piera e Beatrice Ruà, hanno 61 e 65 anni. A piedi arrivano alla fermata dell’autobus, salgono sul 17, che dalla stazione di Brignole, al centro della città, scende fino a Nervi, dove c’è una bella passeggiata a picco sul mare. La passeggiata Anita Garibaldi è lastricata di mattoncini rossi messi a spina di pesce. Appoggiata sulla scogliera, da un lato ha il mare, dall’altro roseti, gallerie d’arte, musei, parchi, calette dove i pescatori mettono le barche. Ogni tanto la passeggiata s’accosta alla ferrovia Genova-La Spezia. Piera e Beatrice camminano per un paio di ore, arrivano alla caletta Torre Gropallo: sotto il ponte della ferrovia c’è un antro usato come magazzino per il rimessaggio di piccole imbarcazioni. Da vicino alle barche sale una scaletta di ferro, con la ringhiera dipinta di celeste. In alto c’è un ballatoio e un ricovero per pescatori. Piera e Beatrice prendono due robuste corde, le legano alla ringhiera del balcone, attorcigliano intorno al collo le estremità libere, saltano la ringhiera. I loro piedi restano a quaranta centimetri dal suolo, Piera e Beatrice muoiono dandosi le spalle. Dopo le cinque del mattino arriva nella rimessa un barbone, che tutti a Nervi chiamano ”il guardiano del faro” da quando, dieci anni fa, evitò che un grande incendio bruciasse tutte le barche del rimessaggio. Da allora ha il permesso di tenere le sue poche cose nella caletta. Mercoledì mattina si trova davanti le due donne impiccate. Chiede aiuto, dopo un po’ arrivano i carabinieri. Nelle tasche delle morte ci sono quattro biglietti dell’autobus (solo due sono timbrati), un mazzo di chiavi. Una ha i pantaloni scuri, l’altra i jeans. Una ha i capelli castani e lisci, l’altra castani e mossi. Altri oggetti trovati addosso: un bracciale componibile con alcune lettere di un nome indecifrabile, un orologio al quarzo, un paio di orecchini a forma di fiore. Non hanno i documenti, ma dato che si assomigliano tanto i carabinieri dicono che potrebbero essere gemelle. Per terra un tovagliolo di carta azzurro e un pacchetto di sigarette. La televisione dice che ci sono queste due morte, ma fino alle 17 e 30 non si riescono a scoprire i nomi. Due signore si presentano all’obitorio dell’ospedale San Martino per vedere i corpi: riconoscono Piera e Beatrice Ruà. Con quest’ultima avevano lavorato alla Saiwa. L’altra è la sorella Piera, che invece aveva lavorato nella pasticceria Panarello, a Genova. Una loro vicina di casa, a sentire la notizia alla radio, aveva pensato che potessero essere le sorelle Ruà e aveva sperato che ”fossero così imbranate da non saper fare un nodo scorsoio”. In serata vengono riconosciute da altre due sorelle, residenti a Genova ma con le quali non andavano d’accordo. Beatrice e Piera, pensionate e nubili, facevano parte di una famiglia piemontese molto numerosa: erano nove figli. Appena trasferite a Genova avevano preso casa in via Trebisonda insieme a una terza sorella. Nel 1980 Piera e Beatrice trovarono la terza sorella che s’era ammazzata in cucina dopo aver staccato la canna del gas dall’innesto fissato al muro. Da allora Beatrice s’era ammalata di depressione bipolare: alternava periodi di grande tristezza a periodi di immotivata euforia. Piera soffriva solo d’insonnia e si prendeva cura di Beatrice. A forza di stare con lei s’era convinta di avere qualcosa che non andasse. Alla vicina aveva ripetuto: ”Penso che siamo due persone tarate. Comprerò una pistola e la faremo finita”. Luigi Ferrannini, direttore del dipartimento di salute mentale della Asl genovese: ”Sicuramente è stato un atto pensato, studiato, con elementi di intenzionalità forte. La stessa modalità lo prevede: impiccarsi è diverso che, ad esempio, defenestrarsi. Nel suicidio di coppia c’è sempre un ”driver”, colui che matura le decisione, ne parla e scatena l’evento. Non è detto però che sia la persona patologicamente più compromessa. Spesso quella meno malata delle due, quella che vive di più gli aspetti invalidanti di una malattia come il disturbo bipolare, è anche quella che decide di farla finita”.