Gianfranco Quaglia, La Stampa 31/5/2006, pp 1-19, 31 maggio 2006
L’italiano che vende riso ai cinesi La Stampa, mercoledì 31 maggio ROBBIO LOMELLINA (Pavia) Andare a Pechino e vendere il riso italiano ai cinesi? Come dire: calciare il pallone di controbalzo e fare goal nella porta degli avversari che stanno attaccando
L’italiano che vende riso ai cinesi La Stampa, mercoledì 31 maggio ROBBIO LOMELLINA (Pavia) Andare a Pechino e vendere il riso italiano ai cinesi? Come dire: calciare il pallone di controbalzo e fare goal nella porta degli avversari che stanno attaccando. La sfida commerciale, quasi ai limiti dell’impossibile, è riuscita e sta riuscendo a Mario Preve, presidente della "Riso Gallo", uno dei marchi più noti dell’industria risiera italiana, 100 milioni di euro di fatturato l’anno. Dagli stabilimenti di Robbio Lomellina, nel Pavese, il riso in scatola viaggia e raggiunge gli scaffali dei supermercati cinesi. Racconta Preve, che è anche presidente dell’Airi (Associazione industrie risiere italiane): "Tutto è nato da una coincidenza fortuita: qualche anno fa il nostro Istituto per il Commercio estero partecipava ad un’importante fiera alimentare di Pechino. Improvvisamente in un multistand ci si accorge che c’è un grosso vuoto da riempire. Mi contattano e proviamo: in una settimana riusciamo a organizzare la nostra presenza portando una gamma dei risotti pronti in scatola. Il nostro rappresentante in Cina rischia quasi la derisione, i buyers locali pensano che non riuscirà mai. Invece i cinesi prendono d’assalto lo stand e vogliono prima toccare e poi assaggiare. Avevamo portato i risotti pronti allo zafferano, al nero di seppia, ai quattro formaggi, agli spinaci. Vedendo i chicchi colorati e più grossi rispetto a quelli del cereale coltivato in Oriente, i visitatori li mettono in bocca sgranocchiandoli come fossero noccioline. Allora installiamo un paio di fornelli e un cuoco si mette a cucinare. I cinesi impazziscono per quel prodotto con il condimento già incluso nel chicco. Gli organizzatori devono chiamare la polizia per frenare l’assedio e regolamentare le code". Da quel momento il canale Italia-Cina è stato attivato. E rappresenta la più bella soddisfazione per un marchio che in questi giorni compie 150 anni, commercializza 1.100.000 quintali di cereale grezzo, esporta 50 milioni di confezioni l’anno in 47 Paesi, ha sedi in Svizzera, Gran Bretagna, Francia. Storia che parte da lontano. Nel 1856 la famiglia apre una riseria, tra le prime in Italia, a Genova, per la lavorazione del riso importato e finalizzato all’esportazione in Sudamerica. In seguito lo stabilimento si trasferisce prima a Novara e poi tra le risaie della Lomellina, a Robbio, cuore della coltivazione. E parallelamente apre un’altra azienda in Argentina dove ha origine lo storico marchio Riso Gallo (Arroz Gallo). Poichè l’analfabetismo a quell’epoca è ancora molto diffuso l’azienda decide di adottare figure di animali per identificare le diverse varietà: dalla tigre all’aquila e al gallo. Quest’ultimo diventato simbolo dell’azienda stessa. Il risotto "made in Italy" esportato in Cina è una delle ultime frontiere dell’agroalimentare del settore risicolo. Che va in controtendenza e cerca spazi. L’industria di trasformazione cavalca tendenze nuove per incrementare in Italia le vendite di riso, ancora troppo lontane dalla pasta, consumata per 5,2 volte la settimana contro l’1,8 del cereale. Una delle remore è ancora rappresentata dai tempi troppo lunghi per cucinarlo, ed ecco che l’industria di trasformazione punta sui risotti rapidi, addirittura espresso, pronti in scatola, da cuocere nel giro di cinque minuti. per questo che si sta investendo molto nella ricerca. Ma è il mercato straniero la grande scommessa dell’industria risiera "made in Italy", una sessantina di stabilimenti concentrati tra Vercelli, Novara, Pavia, "triangolo d’oro" della risicoltura europea, con oltre 220 mila ettari e quasi 5 mila aziende agricole. L’allargamento dell’Ue ai Paesi dell’Est ha fatto letteralmente "esplodere" il mercato, tanto da prendere in contropiede non solo le industrie italiane ma anche quelle del Nord Europa, che importano cereale grezzo dagli Stati Uniti. L’incremento del numero di consumatori ha aumentato anche la domanda e per fare fronte alle richieste le industrie italiane reclamano più materia prima per la trasformazione, chiedendo agevolazioni daziarie per favorire le importazioni. Scenario tuttavia osteggiato dai nostri produttori. Gianfranco Quaglia