è, 31 maggio 2006
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IMAMURA Shoei
IMAMURA Shoei. Nato a Tokyo (Giappone) il 15 settembre 1926, morto a Tokyo (Giappone) il 30 maggio 2006. Regista. «[...] il tipo d’artista anarchico che usa dinamitare codici e regole per imporre una propria visione del mondo. Da noi, il suo cinema iniziò a circolare con una certa regolarità dopo il 1983, anno in cui vinse la Palma d’oro a Cannes per La ballata di Narayama; però i film più difficili - come Il profondo desiderio degli dei - sono restati un must per il pubblico notturno di ”Fuori orario”. Spesso lo si è definito un cineasta ”entomologo”, causa la sua fedeltà a un naturalismo sperimentale che lo portava a prediligere personaggi marginali e irregolari, contraddicendo l’immagine ufficiale del Giappone moderno. Nel dopoguerra aveva iniziato come autore e attore teatrale. Qundi passò al cinema. Studiò col più grande dei maestri nipponici, Ozu, e debutto nel 1957, dirigendo un film fortemente marcato di grottesco. A farlo conoscere ai cinefili occidentali provvede Porci, geishe e marinai, del 1963, dove bande di yakuza si affrontano per raccogliere gli scarti alimentari della Marina americana, da utilizzare per allevare dei maiali. Mai arrivato nelle sale italiane, invece, Cronaca entomologica giapponese (1963) mette in scena la decadenza di una donna. Negli anni seguenti Imamura continua a raccontare apologhi crudeli di esseri ”maledetti” e di perversioni: una donna violentata prova un’attrazione irresistibile per il suo stupratore; un pornografo coinvolge nell’abiezione chi lo frequenta; una ninfomane scatena una tragedia. Se la sua poetica mette regolarmente in conflitto civiltà e istinto, con Una storia del dopoguerra giapponese (1970) il regista rivisita venticinque anni di storia del suo Paese: mescolando fiction e cinema-verità fa emergere la crisi d’identità dei giapponesi, la loro non-appartenenza alle logiche del successo e del denaro imposte dai vincitori. Un radicalismo che gli costa dieci anni di esilio dal cinema, a scontare i peccati nel purgatorio televisivo. Torna al grande schermo con La vendetta è mia, storia di un serial-killer e di un gruppo di prostitute più che mai entomologica e pessimistica, che dimostra come la punizione non sia servita minimamente a piegare l’indipendenza di Imamura. Il quale continua ad affermare che le sue preferenze vanno alle ”parti basse del corpo umano” e agli strati inferiori della società. Dopo la Palma alla Ballata di Narayama, duro apologo sulla lotta per la sopravvivenza, realizza Dr. Akagi (1998), biografia di un medico in cui, tra i fantasmi della bomba atomica, fa capolino un inatteso spirito umanitario. Vince nuovamente la Palma d´oro al festival francese nel 1997 con L’anguilla. Segue Acqua tiepida sotto un ponte rosso (2001), presentato a Cannes: un apologo libertario la cui filosofia è sintetizzata da una battuta del dialogo: ”annega nelle braccia di una donna, sii fedele ai tuoi desideri senza preoccuparti dei fastidi quotidiani”. Le ultime immagini di Imamura comparse sullo schermo appartengono a un episodio (l’undicesimo) del film collettivo 11 settembre 2001, breve ma folgorante metafora contro le ”guerre sante” di ogni tempo e di ogni luogo. Il suo incrollabile spirito di indipendenza lo aveva portato già nel 1965 a fondare una sua casa di produzione, la Imamura Productions, che gli garantiva la totale libertà. Con questo spirito aprì nel ’75 una scuola di cinema e televisione a Yokohama, battezzata Accademia Giapponese di Arti Visive» (Roberto Nepoti, ”la Repubblica” 31/5/2006). «[...] Un regista che ha attraversato più di quarant’anni di storia del cinema nipponico lasciando una traccia indelebile non soltanto nella cultura di quel Paese ma anche in campo internazionale. Basti ricordare che vinse per ben due volte la Palma d’oro al Festival di Cannes: nel 1983 con La ballata di Narayama, nel 1997 con L’anguilla. Ma altri suoi film, anche grazie a quei due premi prestigiosi, sono noti e apprezzati in Occidente, come Pioggia nera (1989), Il dottor Akagi (1998), Acqua tiepida sotto un ponte rosso (2001). Soprattutto quest’ultimo, con quel suo tono delicato e intimista, quel suo sguardo dolce sulle cose, sull’ambiente, sui personaggi, quella leggera malinconia che avvolge la vicenda e i suoi sviluppi, ha dimostrato la grandezza di Imamura nel raccontare storie semplici, in cui i conflitti paiono interni al destino dei personaggi. Che spesso sono uomini e donne in crisi esistenziale, che faticano a vivere la loro vita quotidiana e tuttavia riescono a uscire dalla solitudine e a riaffermare, contro le avversità, una loro forte personalità. Ciò è rintracciabile anche nella strana vicenda dell’Anguilla, grottesca e drammatica a un tempo, che vede un uomo già condannato per uxoricidio condurre la propria esistenza in un villaggio di pescatori, solitario e amico di un’anguilla. O in Dottor Akagi, che narra la storia di un dottore tutto dedito alla sua missione, altruista e filantropo, durante la seconda guerra mondiale, sino allo scoppio della bomba atomica su Hiroshima: una storia esemplare che Imamura narra con una geniale commistione di toni e modelli drammatici. O infine in Pioggia nera, che descrive la lenta agonia di un gruppo di sopravvissuti alla tragedia immane di Hiroshima. E si potrebbe continuare, rifacendosi magari a quella Ballata di Narayama che lo fece conoscere in Occidente e che è un forte dramma della solitudine, quella dei vecchi condotti in montagna, secondo un’antica usanza, ad aspettare la morte. Che è un tema sotterraneo della sua poetica, implicito in certi film, esplicito in altri. Anche se la morte pare estranea al primo Imamura, quello della fine degli Anni Cinquanta, all’epoca della cosiddetta ”Nouvelle vague” nipponica, più legato ai temi della contestazione e della critica di costumi. allora che egli, già commediografo e attore teatrale, già assistente di Ozu e di Kobayashi, prolifico sceneggiatore, esordisce come regista nel 1958 con un paio di film grotteschi e provocatori, Desiderio rubato e Desiderio senza fine, per affermarsi nel 1961, anche in campo internazionale, con Porci, geishe e marinai, che mescola commedia erotica e film di yakuza con uno stile volutamente discontinuo e frammentario. Poi, a poco a poco, il suo sguardo si fa più intenso e lucido, e nascono film più complessi e profondi, come i capolavori citati e altri non usciti da noi (tranne La vendetta è mia del 1979, forte ritratto di un criminale). Sino all’episodio da lui diretto per il film collettivo 11 settembre 2001, in cui fa un discorso sulla guerra e sugli americani che fa riflettere e sconvolge le coscienze. Grande Imamura, fuori degli schemi e delle mode, regista solitario che non ha mai cessato di indagare, da studioso dell’animo umano, le contraddizioni della vita di relazione» (Gianni Rondolino, ”La Stampa” 31/5/2006). « stato il Godard d’Oriente, il pioniere della Nuberu Bagu, la nouvelle vague nipponica capace di rompere la compostezza formale e l’armonia tradizionali di quel cinema. stato il regista di un cinema dalla parte degli ultimi, la coscienza critica del Giappone, l’autore di storie di feroce realismo, di apologhi corrosivi, di immagini provocatorie per audacia e violenza. [...] Considerato dopo la scomparsa di Kurosawa, il più significativo maestro dello schermo del suo Paese, è stato decorato ben due volte a Cannes con la Palma d’oro [...] Un privilegio che, oltre a lui, possono vantare solo Francis Ford Coppola, Bille August, Emir Kusturica, i fratelli Dardenne.
Ma quel premio che fa tanta gola a tutti, non valse a scalzare il suo imperturbabile distacco. Unico caso nella storia del Festival francese, Imamura nell’83 non venne a ritirare la sua Palma. Con impeccabile gentilezza mandò in sua vece un messaggio di ringraziamenti dove spiegava che, dirigendo una scuola di cinema, proprio in quei giorni era impegnato in una delle esercitazioni pratiche: piantare il riso con i suoi studenti. Un gesto che ben riassume il regista, attento da sempre agli aspetti più concreti della vita, vicino alla gente comune e dei bassifondi, prostitute, malviventi, emarginati, di cui apprezzava, come Pasolini, la ”scandalosa vitalità”. Un ”altro” Giappone, da lui raccontato con la lucidità minuziosa di un entomologo e con la grottesca ironia di chi è intende scardinare regole e tabù. Folgorato sulla via del cinema da un film di Kurosawa, L’angelo ubriaco, Imamura è stato assistente di registi quali Kobayashi, Kawashima e il grande Ozu. Che però lasciò ”per incompatibilità estetica”. Il suo sguardo naturalistico lo porta negli anni ’60 alla rilettura critica della storia del Giappone attraverso una serie di documentari alla ricerca di radici dimenticate. ”Sono stato un testimone dell’americanizzazione del Giappone - amava ripetere - . Un cambiamento vertiginoso solo in superficie, di fondo l’anima del mio Paese resta antica”. Il film che lo fa conoscere internazionalmente, nel ’61, è Porci e corazzate (da noi tradotto nel più ammiccante
Porci, geishe e marinai) ritratto al vetriolo dei marines ma anche dei giapponesi complici a riciclare gli avanzi degli yankee in cibo per maiali. Denunce impietose, scomode anche per il box office. Pochi i suoi titoli arrivati sui nostri schermi. Tra gli ultimi, Pioggia nera, sulle conseguenze del bombardamento su Hiroshima, e Dr.Akagi, satira antimilitarista allo humour nero, dove i funghi atomici si confondono e somigliano a cancri al fegato. Metafora forse profetica del cancro vero, al fegato naturalmente, che lo ha portato via» (Giuseppina Manin, ”Corriere della Sera” 31/5/2006).