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 2006  maggio 28 Domenica calendario

Parla Fidel. La Stampa 28 maggio 2006. Di ritorno da L’Avana. Ebbene sì, anch’io sono tra quegli intellettuali occidentali che si lasciano affascinare da dittatori e caudilli sudamericani, magari anche attratti dal fatto di essere invitati a viaggi principeschi verso le loro spiagge dorate

Parla Fidel. La Stampa 28 maggio 2006. Di ritorno da L’Avana. Ebbene sì, anch’io sono tra quegli intellettuali occidentali che si lasciano affascinare da dittatori e caudilli sudamericani, magari anche attratti dal fatto di essere invitati a viaggi principeschi verso le loro spiagge dorate... Le spiagge di Cuba sono effettivamente dorate, ma io ci sono arrivato, su invito della Biennale d’arte della Avana, con un volo charter in cui non c’era nemmeno il posto per le gambe, in compagnia di turisti per lo più anziani che si lamentavano perché l’ultimo giorno prima della partenza il volo, che non era riuscito a riempirsi, era stato svenduto a prezzi incredibili (600 euro o giù di lì tutto incluso). D’accordo, io non avevo pagato neanche quello, la compagnia aveva regalato alcuni biglietti (quelli da 600 euro?) agli organizzatori della biennale, ma certo mancava uno degli elementi fondamentali per la corruzione dell’intellettuale europeo. Se son venuto meno ai miei doveri di buon occidentale nemico del terrorismo internazionale - ça va sans dire - e delle dittature, non è stato per denaro o beni materiali, ma per amore. Di Castro, sì. Il primo amore, si sa, è difficile da scordare, e io avevo passato parte della mia giovinezza, a partire dagli anni Sessanta almeno, imparando le canzoni della rivoluzione cubana e rimirando il poster di Che Guevara. «Por llanuras y montanas, guerrilleros libres van...» Così, quando dopo aver assistito all’apertura delle Biennale e aver anche ricevuto un diploma onorario assegnatomi, in quanto cultore di estetica, dalla Accademia di Belle arti, molto pubblicizzato dal «Granma» del giorno dopo, sono stato ricevuto da Fidel (una domenica pomeriggio) per un colloquio privato, non ho dovuto fingere nulla, i miei sentimenti di ammirazione, devozione, vero e proprio «amoroso affetto» hanno potuto esprimersi liberamente. Castro (nella sua usuale uniforme verde oliva) mi ha abbracciato e io gli ho preso il viso tra le mani con qualche lacrima agli occhi. Non solo rivivevo la mia gioventù (pseudo) rivoluzionaria, ma ero consapevole di essere in presenza di uno dei pochi resti monumentali della storia del secolo XX (anche mia, perciò). Fidel comincia a parlare di Europa, sa che sono stato deputato europeo, mi domanda della nuova costituzione, poi si allarga a una specie di sunto della storia europea del Novecento, le guerre mondiali uno e due, e la ragionevolezza del fare una Unione per evitare che quelle guerre si ripetano. Ma funziona? Esprimo i miei dubbi, c’è di mezzo sempre una certa riluttanza degli inglesi... Già, perché sono così legati agli Usa. Digressione sulla crisi dei missili anni Sessanta. «E poi, a un certo punto, arriva quel campesino astuto di Nikita» - mi emoziona un po’ sentir definire così familiarmente Krusciov. Ma Castro poi si mette anche a fare l’imitazione di Bush jr., che egli vede evidentemente sulla CNN, e mostra come Bush quando parla in pubblico guardi di lato, per vedere l’effetto (di quelle che Castro ritiene bugie). Mi parla con entusiasmo delle dimostrazioni degli immigrati ispanici negli Stati Uniti, che chiedono più diritti, poi degli accordi che è riuscito a strappare, certo in amicizia, a Chavez, e non concorda con l’idea che mi sono fatto, e che forse ho incautamente espresso, per la quale con il petrolio di Chavez Cuba può finalmente uscire dalla povertà e magari permettersi una vita meno austera. «La colpa della povertà di Cuba», dice Castro, «è il blocco statunitense. Che ha sostituito le aggressioni militari vere e proprie, Baia dei Porci e simili». Insiste sul fatto che con gli Stati Uniti «c’è una vera e propria guerra in corso». Non lo dice lui, ma io lo penso: se c’è la guerra anche certe restrizioni delle libertà individuali (che non ignoro), e il razionamento del riso, la doppia economia (per turisti e per cubani) non sono poi così scandalosi; tutti i cubani con cui parlo si lamentano, ma sopportano appunto perché si sentono in guerra, e poi ricordano che cos’era il regime di Batista. Invento persino, non solo ad usum Castri, l’ipotesi «cubanizzazione del mondo», cioè che il fattore A., l’America di Bush, condizioni ormai tutto il mondo «democratico» imponendo limiti spesso intollerabili alle libertà civili. Anche in Italia, qualunque sinistra che voglia avere possibilità di andare al governo è condizionata da questo fattore A.; gli racconto anche per sommi capi la storia delle imprese della Cia nel nostro paese, il rapimento di un musulmano sospettato di essere un terrorista. Sono ormai passate circa tre ore dall’inizio del colloquio. Durante le quali, mentre parla, Castro (ahi, mi ricorda Berlusconi nel primo faccia a faccia elettorale con Prodi) ha disegnato, scritto cifre, fatto segni in un taccuino blu simile a quello che ho anch’io sul tavolo davanti a me. Gli chiedo se me lo lascia portar via, giuro di non venderlo. Scrive allora una bella dedica che al ritorno mostro ad ex rivoluzionari commossi. Ma al momento di lasciarmi andare (alla lettera, di mollarmi; in questi giorni è uscito il libro che riporta la sua intervista di cento ore con Ignacio Ramonet!) Castro mi dice che vuole ancora mostrarmi una cosa: apre una porta accanto alla sala (del Palacio de la Revoluciòn, dove siamo) e mi trovo in un altro salone che è una specie di esposizione di elettrodomestici: frigoriferi, pentole a pressione, condizionatori, lampade, aggeggi vari da cucina elettrica. Mi viene in mente che, dopo tutto, a ottant’anni Castro può anche essere impazzito, e che questa sala sia il suo giocattolo... Ecco dunque che cosa fa dal mattino alla sera... Ma il cattivo pensiero viene subito dissipato, anche se Fidel si gode per un momento il mio sconcerto. Mi spiega che sta facendo personalmente esperimenti per trovare gli elettrodomestici che consumano meno; a Cuba questo è l’anno del risparmio energetico. Già nei giorni precedenti, visitando Pinar del Rio e Santa Clara (dove c’è il mausoleo del Che), ho notato che davanti alle porte delle case di interi quartieri c’erano dei frigoriferi; pronti, mi hanno spiegato, a essere sostituiti in massa da altri (credo cinesi) che consumano la metà dell’energia. Castro vuole procedere su questa strada anche per altre attrezzature domestiche - specialmente la pentola a pressione, sogno di tutte le massaie cubane. Se compriamo questi apparecchi in grandi numeri, dice, otteniamo sconti giganti e possiamo rinnovare tutto il «parco». Accanto all’ingresso della sala degli elettrodomestici c’è anche un ventilatore rudimentale, fatto con pezzi di motori di vecchie automobili: «Ecco come i cubani si difendevano dal caldo negli anni del ”periodo eccezionale”», quello seguito alla caduta dell’Urss, quando Cuba si trovò (anni Novanta) senza acquirenti per il suo zucchero e senza aiuti di nessun tipo. Sono gli anni di cui mi parla anche la mia guida locale, un esperto di storia dell’arte che racconta anche la fame di quell’epoca, mitigata da acqua e zucchero e poco più. E dopo l’illustrazione dei vantaggi e svantaggi di pentole e lampadine, è la volta dei cataloghi di attrezzature mediche: che ho già visto in funzione alla Scuola di medicina latino-americana, una istituzione dove, gratuitamente, studiano migliaia di ragazzi e ragazze dei paesi del Sudamerica, con standard accademici da grande università nordamericana. Li ammettono previo esame politico-ideologico? Mi si dice di no, ma si insiste anche sul fatto che cercano di dar loro una formazione socialmente orientata, perché una volta diventati medici generici o specialisti, si impegnino a tornare nei loro paesi di origine invece di rivendersi sul mercato capitalistico. Sono come i medici cubani che, insieme ai maestri di scuola, ho già visto al lavoro nelle favelas del Venezuela, e che non sono solo la mano d’opera «di scambio» per il petrolio di Chavez, ma la realizzazione del sogno del Che, l’esportazione della rivoluzione cubana nei paesi latino-americani o anche in Angola. Così, è esportazione della rivoluzione anche la cosiddetta «Operaciòn Milagro», la campagna di operazioni gratuite di cataratta per decine di migliaia di latino-americani poveri che recuperano la vista con una settimana di soggiorno (gratis, con viaggio pagato per sé e un accompagnatore) nel grande ospedale oftalmico dove si utilizzano quegli apparecchi modernissimi (spesso giapponesi) di cui Castro mi fa vedere i cataloghi, e che ho visto in uso visitando l’ospedale. Gli oftalmologi dei paesi latino-americani, e del Nord America, sono furiosi per questo servizio, che sottrae loro pazienti altrimenti paganti. Scuola di medicina, ospedale del miracolo, anche università di informatica (situata negli edifici, evidentemente già molto cablati, in cui stavano i servizi di intelligence russi ai tempi del socialismo reale). Ho fatto il tipico itinerario offerto agli ospiti del regime, mi sento come Sartre (si licet) quando andava in Cina con la De Beauvoir. Ma ho visto anche una quantità di iniziative di base, piccoli teatri di provincia, piccole case editrici, scuole d’arte non solo alla Avana, ma nei villaggi lontani. La mia coscienza «democratica» mi dice di vigilare, mi richiama agli anni del fascismo italiano prima della alleanza con Hitler, le massaie rurali, il sabato fascista (certo, con le «adunate» più o meno obbligatorie). Non ho il coraggio di domandare a Castro dei tanti omosessuali ancora in prigione a Cuba. Ma sono lì in sua presenza accompagnato da alcuni intellettuali notoriamente gay, dunque... Non so se sto scegliendo tra il mio amore per la libertà e l’amore per Castro. Certo preferisco vivere nel mondo capitalista, ma davvero l’entusiasmo per un impegno politico che forse costa (privazioni e limiti) ma che almeno fa sentire vivi non conta niente, è solo una faccenda da ingenui privilegiati che ogni tanto fanno del turismo rivoluzionario (sia pure con voli charter)? Mi sembra invece di aver imparato che la rivoluzione cubana non e più soltanto una questione di progetti e di chiacchiere socialiste, diventa un fenomeno concretamente capace di fornire modelli, di costituire un centro di resistenza alla forza del capitalismo nordamericano. La mia ipotesi avventurosa di una «cubanizzazione del mondo» forse non è così insensata. Anzitutto, a partire da Cuba, dal Venezuela, ma ormai anche dalla Bolivia di Morales, dal Brasile di Lula, dal Cile della signora Bachelet, dall’Argentina di Kirchner, si sta profilando un gruppo di paesi che, pur con le loro differenze, hanno interesse a rendersi autonomi dagli Usa e che possono diventare i partner di una Europa un po’ meno Bush-dipendente. Sarà vero che ora l’interesse del grande capitale americano è diretto verso l’Oriente di India e Cina la quale ultima è ormai proprietaria di mezza America. Ma forse anche grazie a questa minore attenzione per la metà Sud del continente da parte di Washington, in questi paesi si sta costruendo una alternativa non solo politica, ma anche sociale, al modello capitalistico sempre più evidentemente in crisi. Che tutto questo succeda in una regione dove il volto umano del socialismo può prendere anche le sembianze del Buena Vista Social Club, della musica e del piacere di vivere dei Caraibi, non fa che rendere la prospettiva ancora piu attraente e amichevole. Gianni Vattimo