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 2006  maggio 28 Domenica calendario

1946 Italia anno uno. La Stampa 28 maggio 2006. Tombolo. Una pineta tra le dune di sabbia della spiaggia tra Livorno e Pisa

1946 Italia anno uno. La Stampa 28 maggio 2006. Tombolo. Una pineta tra le dune di sabbia della spiaggia tra Livorno e Pisa. Lì, nel 1946, nacque una sorta di «colonia» di fuorilegge, una terra di nessuno sottratta al controllo dello Stato e della polizia. Nel folto del bosco, in tende e altre abitazioni di fortuna, si addensò una promiscua popolazione di ribelli, disertori (negri per lo più fuggiti dalle file dell’Us Army) e altri «irregolari»: prigionieri tedeschi, militari sbandati marocchini, indiani, neozelandesi, e tante donne italiane di ogni età. Tutti i possibili traffici illeciti (dal contrabbando alla prostituzione) vi confluivano: grandi e frequenti autocarri scaricavano, frutto di rapine piuttosto facili, liquori, sigarette, penicillina; come scriveva un cronista di allora, «la cartamoneta vi esorbita e passa dalle mani dei soldati neri a quelle delle prostitute bianche con annoiata liberalità». E Tombolo, di colpo, si materializzarono i sogni e gli incubi che avevano accompagnato l’arrivo degli americani in Italia. Il sogno era quello dell’abbondanza, di chi guardava agli Stati Uniti come a uno straordinario «paese della cuccagna», un antichissimo mito dell’Italia contadina. A Tombolo si trovava di tutto: un flusso inarrestabile di merci, di corpi e di anime alimentava un mercato mostruosamente ampio in cui tutto era contrattabile, vendibile, acquistabile. Era come la Saigon del Cacciatore, come la Berlino del Matrimonio di Maria Braun, come le retrovie di tutti i fronti, di tutte le guerre; ma tutto era anche irripetibilmente e specificamente italiano. Vincitori e vinti si mischiavano in un’osmosi indistinta: la «comunità» installatasi a Tombolo ridefiniva le gerarchie tradizionali, azzerava le distinzioni sociali, abbatteva le barriere razziali. A Tombolo e solo a Tombolo il pregiudizio contro i «negri» si diluiva nel vortice dei traffici e dei denari. L’incubo era il lato oscuro di questo stesso sogno. Tombolo era figlio legittimo della nostra disfatta. Risalendo dal Sud al Nord, la guerra aveva lasciato quel suo sedimento, una scia di bava raggrumatasi e fermentata. Era la materializzazione dell’incubo delle nostre «spose, madri e sorelle» violate dai negri, dei balli osceni, delle musiche selvagge. La guerra è un’esperienza estrema: l’abitudine alla violenza allenta tutti i freni inibitori. un discorso che vale non solo per violenza politica, quella esplosa nel «triangolo della morte». Nell’Italia del 1946 esisteva una più generale questione di ordine pubblico: «cessata la contesa delle armi», scriveva Ezio d’Errico, «ci illudemmo che il massacro fosse finito, ma la morte è una falciatrice difficile da frenare quando ha preso l’abbrivio. Dovemmo riconoscere che la follia delittuosa, lungi dal sopirsi, si era semplicemente trasferita dai militari ai civili e che in fatto di uccisioni l’iniziativa individuale non aveva gran che da invidiare all’organizzazione statale... Nelle regioni meridionali il banditismo è esploso come un sanguinoso fuoco di artificio, ricalcando, persino anagraficamente (esempio la banda ”Fuoco”) i nomi più famosi del brigantaggio borbonico, benitenso con il perfezionamento del mitra e della motorizzazione. Il Modenese e l’Emiliano hanno visto risorgere e moltiplicarsi il delitto a sfondo politico-agrario, il delitto a imboscate, senza nemmeno più il patetico conforto di sentire nitrire la cavallina storna, perché gli uccisi restano nell’automobile sforacchiata o presso la bicicletta contorta sul ciglio del viottolo». E Guido Piovene aggiungeva: «Il dilagare del delitto è uno dei consueti effetti di tutte le guerre. Questo dimostra in modo chiaro che la guerra non è affatto, come si pretende, uno sfogo agli istinti aggressivi dell’uomo. L’unico effetto della guerra è quello di eccitarli». Insieme con molte altre, le voci degli scrittori che ho citato sono tutte ospitate in un numero monografico di Mercurio, la straordinaria rivista diretta da Alba de Céspedes, pubblicato proprio alla fine del 1946. Le sue pagine ci restituiscono un’Italia affollata di macerie morali e materiali (due milioni di case distrutte, 1.600.000 disoccupati, la produzione industriale ridotta a 1/3 di quella dell’anteguerra, quella agricola a 2/3). Un’Italia in cui le ferite recenti della guerra si sommavano a quelle antiche di un paese povero, ancora essenzialmente legato all’agricoltura, una base industriale molto ristretta, trasporti difficili (circolavano meno di due auto per ogni cento abitanti), con le ferrovie che coprivano soddisfacentemente soltanto i percorsi lungo le due fasce costiere. Il livello dei consumi era molto modesto e gran parte dei bilanci familiari veniva indirizzato verso le spese per l’alimentazione (su 11.592.000 famiglie italiane, 4 milioni e 400 mila non consumavano mai carne e 3 milioni e 200 mila circa la consumavano una volta la settimana). Il Nord e il Sud rappresentavano due realtà separate, non solo economicamente. Su una media nazionale pari al 12,9% della popolazione, gli analfabeti risultavano quasi scomparsi al Nord (con un minimo dell’1% in Trentino-Alto Adige, del 2,6% in Piemonte e del 2,7% in Lombardia), mentre al Sud sfioravano il 25% con punte massime in Calabria (31,8%) e in Basilicata (29,1%). In questo mondo opaco, le elezioni per la Costituente e il referendum Monarchia/Repubblica del 2 giugno portarono come una gigantesca sferzata di attivismo: andò alle urne l’89,1% del corpo elettorale, una percentuale senza precedenti nella storia italiana, con le donne per la prima volta in assoluto elettrici e eleggibili (furono 21 quelle che entrarono alla Costituente). Una fase costituente non è una fase «normale» nella storia di un paese. Quando arriva, porta con sé il segno di una frattura profonda. Nell’Italia di allora questa rottura alimentò una febbrile mobilitazione, la riscoperta del gusto della competizione democratica, un profondo «affidamento» alle capacità della politica di risolvere i nostri mali endemici. Si trattava di scuotere dall’inerzia e dall’apatia una società civile segnata dai guasti della guerra e dalle tossine di un regime totalitario. Il fascismo non aveva solo svuotato le istituzioni democratiche; aveva addormentato le coscienze individuali, disabituandole all’impegno per la libertà. La democrazia e l’antifascismo si presentarono allora come un anticorpo robusto contro il virus dell’indifferenza: «Mai vedemmo le facce degli uomini vive ed espressive come in quei giorni: vi si leggeva finalmente la strenua volontà di non affidare altro che a se stessi il diritto di decidere sulla propria sorte... Anche i bambini nei quartieri popolari giocavano alle elezioni, tracciavano simboli col gesso, e come nel gioco della guerra nessuno voleva fare il tedesco, così a tutti ripugnava la parte del monarchico. Similmente, nei quartieri ricchi, si dava per burla la caccia al comunista che quasi si raffigurava nel modo tenebroso, repulsivo e insieme attraente del gangster... raramente si arrivò alla forza fisica. Al contrario era in tutti un commovente impegno di servirsi solo della forza degli argomenti... Bei giorni in fondo. Furono una prova di vitalità e anche di civiltà. Significarono che ancora una volta sull’Italia potevano addensarsi le disgrazie, passare le invasioni, premere la miseria, senza riuscirne a soffocarne del tutto la voglia di sopravvivere». Era la penna di Libero Bigiaretti. Si trattava di un evento unico nella nostra storia nazionale. Dal 1848 in poi, la rivendicazione di un’assemblea costituente, l’ideale di un corpo elettivo che liberamente sancisse gli ordinamenti istituzionali e costituzionali, era sempre stato un sogno inappagato dei democratici italiani. Persino Mussolini, nel 1919, aveva promesso ai suoi seguaci la Costituente. E ora, strana ironia della storia, era stato proprio il naufragio del regime mussoliniano e la rovina dell’Italia a render necessaria, e a far accettare, la convocazione della prima Costituente italiana. Ne derivò un piccolo miracolo. Rispetto alla diffusa opacità che affiorava dal paese, la classe politica che uscì dalle urne rappresentò un’oasi di dinamismo e di fervore progettuale. Nella nostra storia è capitato poche volte; se allora si verificò, fu soprattutto grazie all’antifascismo. I venti mesi della lotta partigiana contro l’occupazione nazista e la Repubblica di Salò erano stati un banco di prova durissimo, in grado di selezionare uomini nuovi, legittimatisi affrontando vittoriosamente un’emergenza drammatica. E prima ancora, nel corso del ventennio fascista, all’estero (come fu per i socialisti, i comunisti e quelli di GL), in Vaticano (come fu per De Gasperi) in Italia (nelle enclave lasciate libere dal regime come fu la Banca Commerciale per quelli del PdA) tutti entrarono in contatto con le correnti più vive del dibattito politico e culturale internazionale, riuscirono a scavarsi percorsi di formazione estranei alle anguste chiusure autarchiche del fascismo. E arrivarono pronti all’appuntamento che per tutti la storia aveva fissato al 2 giugno 1946. Giovanni De Luna