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 2006  maggio 30 Martedì calendario

L’ITALIA DELLE ORECCHIE

Tra il dicembre 2005 e il marzo di quest’anno, Fastweb e Telecom Italia finiscono in tribunale. I due operatori telefonici si accusano a vicenda di concorrenza sleale e di abuso di posizione dominante nel mercato della telefonia fissa. All’apparenza è materia per addetti che ha a che fare con il dumping sulle tariffe tra i due maggiori concorrenti sul mercato. In realtà, al fondo della storia c’è altro. [1]

Filippo Lamanna, giudice della prima sezione della Corte di appello civile di Milano, si ricorda di un’intervista rilasciata nella primavera 2004 da Leonardo Mangiavacchi, responsabile del Customer insight Management di Telecom, a Insight, periodico on-line di Business intelligence. «In un regime di concorrenza molto aggressiva diventava fondamentale massimizzare la redemption delle campagne, e per farlo era necessario tarare l’offerta sui target specifici: questo richiedeva una profilazione dei clienti molto accurata. iniziata un’attività di progettazione e sviluppo, anche tecnologico, finalizzata ad ottenere segmentazioni estremamente ”spinte” della nostra clientela: siamo arrivati a ragionare su cluster molto piccoli incrociando un numero enorme di informazioni. I dati anagrafici, geografici, di comportamento venivano incrociati con indicatori predittivi calcolati attraverso studi basati sul funzionamento delle reti neurali: questi studi ci indicavano, per esempio, quali fra i nostri clienti avevano maggiore propensione al passaggio alla concorrenza». [2]

Il dirigente Telecom svela la strategia che sta alle spalle di ciò che accade da mesi nelle case dei consumatori che sono passati da Telecom a Fastweb: ricevono telefonate dai call center Telecom con l’invito a tornare al vecchio operatore. Per convincerli, i venditori Telecom offrono tariffe che calzano come un guanto sulle loro esigenze. Chi chiama da quei call center – dicono i giudici - dimostra di conoscere perfettamente oltre ai nominativi, «i consumi pregressi e i profili di propensione alla spesa dei clienti passati alla concorrenza». Bonini: «Di loro, gli uomini del ”recupero clienti” Telecom sanno tutto. Quanto telefonano, verso quali apparecchi, in quale zona d’Italia. Se utilizzano o meno la banda larga internet. Conoscono, soprattutto, a quale nuovo operatore si sono affidati». [1]

Come fa Telecom a sapere? Quando si passa a Fastweb sia la linea sia il traffico sono gestiti dal nuovo operatore, che ha una propria infrastruttura e non si appoggia su quella Telecom. Il giudice Lamanna: «L’infrastruttura è nuova ed autonoma, ne fa parte anche il ”doppino in rame” del cosiddetto ultimo miglio. Telecom non dovrebbe dunque sapere che quel doppino è attivo con un altro operatore. Se lo sa, sta abusando di un’informazione acquisita altrimenti». [1]

Telecom dice che le sue fonti sono sotto gli occhi di tutti: le Pagine Bianche e l’elenco dei clienti Fastweb su Internet. La smentita è ancora del giudice Lamanna: «Le Pagine Bianche non contengono alcuna informazione sulle caratteristiche dei clienti e sulla loro propensione al consumo o sull’uso della banda larga. Il sito Fastweb ha consentito fino alla primavera 2005 di trovare il numero di un abbonato, ma soltanto conoscendone già il nome». Bonini: «Se Telecom era già in possesso di queste informazioni, la legge gli avrebbe imposto di distruggerle a contratto rescisso. Se non le aveva, deve averle pescate nella Base Dati Unica, che raccoglie i dati sui consumatori così come comunicati da tutti gli operatori con licenza di rete fissa o mobile. Ma a quell’archivio si può accedere ”esclusivamente per finalità di sicurezza e gestione”. Se è qui che Telecom ha attinto, la violazione diventa doppia». [1]

Ecco l’ordinanza di quarantaquattro pagine firmata dal giudice Lamanna il 2 maggio e depositata il 16: Telecom Italia avrebbe schedato migliaia di ex clienti passati ad altri operatori telefonici. Avrebbe acquisito e utilizzato informazioni privilegiate che li riguardavano (profili anagrafici, domicili, utenze, consumi telefonici, propensioni alla spesa) «in violazione di precisi obblighi legali e regolamentari». Lo avrebbe fatto «con pratiche abusive», «in violazione delle norme sulla concorrenza» e «con mezzi non obiettivamente giustificabili». Viene ordinata l’immediata cessazione della pratica, si fissa una sanzione di 500 euro per ogni singolo illecito che dovesse ripetersi, si lascia aperta la porta a possibili sviluppi penali: «Poiché il trattamento illecito di dati riservati è fonte di molteplici fattispecie di reato, punibili anche con la reclusione, ci si riserva la decisione di comunicare o meno quanto emerso alla competente autorità di indagine penale». [1]

Carlo Bonini di Repubblica, che, con Giuseppe D’Avanzo ha condotto l’inchiesta sulle intercettazioni senza che nessun altro giornale gli sia andato dietro, ha posto quattro domande a Telecom: «Quali sono le regole per la trattazione dei dati sensibili?», «Le informazioni sugli ex clienti vengono distrutte e in questo caso con quale cadenza temporale?», «Quali uffici aziendali hanno accesso a queste informazioni?», «I responsabili della sicurezza Telecom hanno accesso alla Base Dati Unica (l’archivio informatico che custodisce le informazioni su tutti i clienti di telefonia fissa e mobile del Paese, ndr)?». Ecco la risposta di Telecom: «Si sta valutando l’eventuale impugnazione dell’ordinanza e dunque non abbiamo altro da aggiungere a quanto già comunicato il 16 maggio. Non sono mai stati utilizzati i dati degli ex clienti e l’azienda non ha promosso alcuna campagna riservata all’attuale clientela Fastweb». Bonini: «Una sola annotazione di fatto. Agli atti del processo di Milano, figurano due documenti riservati della Divisione commerciale Telecom: ”Lista di marketing su 7732 clienti residenziali romani Fastweb”; ”Lista di marketing su clienti business platinum”. I clienti sono classificati in ”fasce”. Per volume di traffico telefonico, spesa e, naturalmente, gestore cui si sono rivolti. Fastweb, appunto». [1]

La vicenda prende una strana e inquietante piega, dato che la Procura di Milano si sta già occupando di un’agenzia d’investigazione (la Polis d’Istinto), per lunghi anni al servizio retribuito di Telecom, che ha raccolto illegalmente decine di migliaia di informazioni sull’intera classe dirigente italiana. [3] Secondo alcuni, i files incriminati sono centomila e riguardano politici, uomini di finanza, banchieri, arbitri e manager di calcio. [4]

Occorre fare un salto indietro. Un anno fa i pm della Procura di Milano stavano indagando sugli appalti per la sicurezza e sulla società di vigilanza Ivri: per una storia di tangenti finirono in carcere i vertici della società. Quasi per caso spuntò il nome di Emanuele Cipriani, 45 anni, console della Guinea Conakry e amico di Licio Gelli, titolare di un’importante agenzia d’investigazione, la Polis d’Istinto, che negli ultimi quindici anni ha svolto attività di indagine e sicurezza per la Telecom per almeno 14 milioni di euro. Il tramite tra l’azienda e l’investigatore è Giuliano Tavaroli. [5] Giuliano Tavaroli, 46 anni, ex carabiniere, responsabile della sicurezza Telecom e del suo proprietario Marco Tronchetti Provera. Controllava il Centro nazionale autorità giudiziaria (Cnag) dove transitano tutte le richieste d’intercettazione dell’autorità giudiziaria, cui lui può accedere liberamente. [4]

Lavorando sulla coppia Cipriani-Tavaroli, i carabinieri si sono imbattuti, di nuovo per caso, nelle telefonate di Pierpaolo Pasqua, 36 anni, ex capo di un circolo di Alleanza nazionale, figlio di un ufficiale dell’Arma con un passato nei servizi. Pasqua è l’uomo che alla vigilia delle ultime elezioni regionali nel Lazio ha tentato di eliminare con sistemi illeciti i candidati del centrosinistra e dell’estrema destra. Così Alessandra Mussolini è stata fatta passare per una che voleva farsi votare alla Regione Lazio grazie a centinaia di firme false: per mesi è stata sospettata di essere la mandante di un reato che non aveva mai commesso. Mentre l’attuale presidente Piero Marrazzo, pedinato e intercettato illegalmente, doveva essere presentato addirittura come l’amante di un viado. E Giovanna Melandri, adesso ministro, se l’è cavata soltanto perché alla fine non è stata candidata. [6]

Bonini: «Il Presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, ha voluto Tavaroli al suo fianco fino alla fine. Lo aveva formalmente parcheggiato da qualche tempo in Pirelli, in un angolo poco esposto. A far nulla, ufficialmente. Se non attendere di vedere quale verso avrebbe preso l’inchiesta e, soprattutto, che ne sarebbe stato degli accertamenti sulla Polis d’Istinto di Emanuele Cipriani, porta d’accesso a Telecom. In realtà, Tavaroli conservava il suo ufficio in piazza degli Affari, continuava a intervenire sui temi della security nei corsi di formazione dei dirigenti. Sapeva di non dovere spiegazioni e di poter dunque ancora rispondere con un’alzata di spalle e più di un’omissione alle domande di qualche ficcanaso». [7]

Tavaroli nel marzo scorso (sono i giorni delle dimissioni del ministro Storace per le attività di spionaggio su Marrazzo) faceva esattamente così. Bonini: «Il nome di Emanuele Cipriani e della sua Polis d’Istinto fiorisce negli atti di quell’inchiesta e il Sole-24 Ore (21 marzo) decide di bussare alla porta dell’amico più importante di Cipriani. Tavaroli, appunto. ”Non mi occupo più di questioni legate alla sicurezza - dice lui - perché purtroppo, da quasi un anno, sono fuori da Telecom e mi occupo di pneumatici in Romania”. ”Sono stupito dal modo in cui si fa giornalismo in Italia - ammonisce -. E non capisco perché il Sole-24 Ore, che sin qui si è distinto per non essersi occupato della vicenda Polis d’Istinto, non continui a non occuparsene vista la banalità del soggetto”». [7]

In quegli stessi giorni la Procura di Milano sequestra in casa di un collaboratore di Cipriani un dvd protetto da una password, che Cipriani offre volontariamente ai pubblici ministeri che lo interrogano. Ne salta fuori l’archivio dell’intera attività di intelligence clandestina che Cipriani ha svolto con la sua Polis d’Istinto e con almeno altre due società di investigazione privata con sede all’estero. Una miniera di nomi e di file. Un pozzo senza fondo di informazioni sensibili (personali e patrimoniali) attinte da banche dati che dovrebbero custodire la segretezza della vita privata e di relazione di ciascun cittadino (le persone con cui si parla al telefono, con cui si fanno affari, cui si è legati da rapporti di amicizia o frequentazione). [7]

Le schede sono compilate meticolosamente, nulla sfugge agli occhi degli spioni. Si consultano i registri immobiliari, gli archivi notarili, il pubblico registro automobilistico, il registro navale, l’anagrafe tributaria. Si scava negli istituti di credito, nei fondi di investimento, nelle società finanziarie. Si annotano i soggiorni all’estero, la presenza abituale in luoghi di villeggiatura. Ci sono anche accertamenti patrimoniali all’estero. Quasi sempre, gli accertamenti sono estesi al coniuge o ai figli, alle persone fisiche o giuridiche, società, consorzi, associazioni del cui patrimonio la persona ”schedata” risulta poter disporre ”in tutto o in parte, direttamente o indirettamente”. [4] I files si arricchiscono dei tabulati telefonici Telecom (documenti che permettono di ricostruire l’intera mappa dei contatti del ”soggetto di interesse”), in qualche caso, delle intercettazioni della magistratura. Tavaroli e Cipriani adesso sono indagati per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione di pubblici ufficiali per l’acquisizione di informazioni coperte dalla privacy. [8]

A chi servivano queste intercettazioni? Cipriani insiste: il suo lavoro è stato regolarmente commissionato, attraverso Giuliano Tavaroli, dal presidente Marco Tronchetti Provera. Per allontanare i dubbi ha anche mostrato le fatture (come si è detto, in totale quattordici milioni di euro) regolarmente emesse su Pirelli-Telecom, relative però a prestazioni che negli archivi delle società sono definite in modo molto generico. [4]

I dubbi però non se ne vanno. La prima cosa che lascia perplessi è lo strano giro che compiono i soldi: Cipriani preferisce farsi pagare in sterline e a Londra. Da lì il denaro si sposta a Montecarlo, quindi in Svizzera, alla fine approda in un conto della Deutsche Bank del Lussemburgo, intestato alla Plus venture management, società off shore con base nel paradiso fiscale delle Isole Vergini britanniche. D’Avanzo: «Che necessità c’è di far fare a quel denaro, compenso di regolare contratto di consulenza/collaborazione, il giro del mondo?». Il secondo grande dubbio è: se il committente dei fascicoli della Polis d’Istinto è Tronchetti Provera, perché alcuni fascicoli riguardano lo stesso Tronchetti e gli affari di sua moglie Afef? Ancora D’Avanzo: «Cipriani sostiene che il suo lavoro è stato regolarmente commissionato, attraverso Giuliano Tavaroli, dal presidente Marco Tronchetti Provera. Ma è vero? O è vero che, confidando nel loro incarico ufficiale, Cipriani e Tavaroli si sono messi, con il tempo, in proprio schedando obiettivi (’soggetti di interesse”) selezionati di volta in volta da altri misteriosi ”clienti” o così fragili da poter essere ricattati e ”condizionati”?». [4]

Tra gli spiati ci sono tutti i protagonisti della scalata di Bpi ad Antonveneta e di Unipol a Bnl, per esempio. Gli industriali e i finanzieri che scalarono nel 1999 la Telecom. I politici e gli uomini di governo che guardarono con interesse a quell’operazione. Una schedatura così ramificata non s’è mai vista dai tempi del Sifar del generale Giovanni De Lorenzo. [4]

Non è di certo la questione più rilevante, ma il calcio c’entra anche questa volta. D’Avanzo: «Il pasticcio spionistico incrocia lo scandalo del calcio. Per quanto racconta Emanuele Cipriani ai magistrati, nei file illegali della Polis d’Istinto ci sono alcuni dossier raccolti, su input dell’Inter di Massimo Moratti e ordine di Marco Tronchetti Provera, contro l’arbitro Massimo De Santis, il direttore sportivo di Messina e Genoa Mariano Fabiani, il direttore sportivo del Catanzaro Luigi Pavarese. La scoperta ha amareggiato (e irritato) molto la Procura di Milano. Ai pubblici ministeri, tre anni fa, è stata segnalata la confessione che l’arbitro Danilo Nucini affida ”in privato” al presidente dell’Inter, Giacinto Facchetti. La ”giacca nera” racconta ”il metodo Moggi”; le pratiche occulte utilizzate per aggiustare i risultati prima della partita; le modalità e i luoghi degli incontri clandestini del direttore della Juve con gli arbitri ”addomesticati”. Addirittura indica i numeri di telefono ”coperti” utilizzati dalla ”banda” per comunicare in sicurezza. Facchetti invita Nucini a incontrare i magistrati. L’arbitro non ne vuole sapere, non se la sente di strappare il velo. Il presidente dell’Inter insiste. Pena un po’. Alla fine, la spunta. Nucini va in procura, ma è un buco nell’acqua. L’arbitro non conferma le sue accuse. Tocca ora a Facchetti. Se la sente di diventare attore della denuncia riferendo ai magistrati le rivelazioni di Nucini, peraltro registrate dal presidente dell’Inter? Facchetti affida la decisione al patron della squadra, Massimo Moratti. Che esclude la testimonianza per non ”compromettere” il presidente del club. La storia sembra morta lì. Invece continua per vie oblique (da qui l’irritazione della procura che si sente oggi utilizzata e gabbata dall’Inter). Il club neroazzurro si rivolge alla rete spionistica di Telecom, alla Polis d’Istinto di Emanuele Cipriani, per venire a capo della presunta corruzione di Massimo De Santis, indicato da Nucini come uno dei protagonisti dei trucchi. Il Corriere della Sera ha già svelato la nota di accompagnamento dell’indagine spionistica: ”Con il presente report siamo a riportare quanto emerso dall’attività di intelligence attualmente in corso a carico di Massimo De Santis e della di lui coniuge, sviluppata al fine di individuare eventuali ”incongruità” in particolare dal punto di vista finanziario e patrimoniale a carico del soggetto di interesse”». [4]

Cosa rischia la Telecom lo spiega Francesco Pizzetti, Garante della Privacy: «Supponiamo che Telecom non abbia ottenuto il consenso dei clienti ad acquisire o trattare i loro dati personali, o che la procedura sia stata opaca, illegittima. Possiamo comminare fino a 90 mila euro di sanzione». Pochino, ma se la violazione è stata sistematica e grave le norme comunitarie autorizzano a «mettere in discussione il diritto stesso all’esercizio dell’attività d’impresa. un’ipotesi estrema, da disastro nucleare: ogni decisione andrebbe presa d’intesa con l’Autorità per le Comunicazioni, anche in seduta comune». E se ci fosse di più? Se si accertasse un’attività spionistica ai danni di personalità pubbliche? «Siamo in allarme. Se scoprissimo la schedatura di personalità pubbliche, la privacy entrerebbe in campo, certo. Ma finirebbero in gioco i fondamenti stessi della nostra democrazia». [9]

Ferruccio Sansa: «Una cosa è sicura: a ogni filo che tiri, in questa inchiesta, te ne vengono fuori altri dieci. Impossibile capire dove si possa andare a finire. Forse anche per questo il neo ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha preso l’iniziativa nella vicenda: ”Chiederò ai magistrati se vi sono rilevanze penali nella notizia giornalistica da cui emerge che esiste un archivio di intercettazioni che riguarderebbero manager, politici e arbitri. Non possiamo stare in Italia con il continuo allarme di essere spiati. una spada di Brenno che non si può accettare. Farò la parte che mi tocca, il resto spetta alla magistratura”, annuncia Mastella. E aggiunge: ”Mi dispiace per Afef, è una persona che stimo, la volevo candidare nel mio partito”». [5]

Dopo le inchieste di Repubblica Marco Tronchetti Provera ha scritto ai suoi 85mila dipendenti attaccando il gruppo dell’Espresso: «Care colleghe e cari colleghi, da qualche tempo un gruppo editoriale mostra un persistente accanimento contro la nostra azienda accusandola di presunte attività illecite, quali intercettazioni, creazioni di ”dossier” e schedature dei clienti. Non mi riconosco e so che anche voi non vi riconoscete in questa falsa rappresentazione dell’azienda; né comprendiamo le ragioni di questa aggressione; ma non ci interessa fare dietrologie. Preferiamo guardare avanti». Ci sono parole dure per i manager finiti sotto inchiesta, a partire da Giuliano Tavaroli: «Chi, in malafede, ha commesso scorrettezze e abusi, è sempre stato allontanato. Chi, in malafede, dovesse commetterne in futuro, sarà allontanato». [10]

Il Foglio venerdì scorso ha rivelato che tra il gruppo Espresso e Telecom non corre buon sangue. Per via della concorrenza nel mercato delle frequenze televisive (tra l’altro L’espresso possiede Rete A - All Music, diretta concorrente di Mtv che invece appartiene a Telecom, insieme a La7). Ma anche per colpa di ruggini personali: al tempo della fusione tra Tim e Telecom l’ex numero uno della società di telefonia mobile Marco De Benedetti (figlio di Carlo, editore di Repubblica) fu emarginato nella sola veste di consulente. Lo scorso ottobre De Benedetti jr ha lasciato Telecom per approdare al fondo Carlyle: ha firmato un patto di non concorrenza col gruppo di Tronchetti Provera, ma nulla impedisce a Carlyle d’investire nel settore delle telecomunicazioni, come sembrerebbe interessato a fare. [11]

In tanto caos, D’Avanzo si stupisce per il silenzio del mondo politico: «Di che cosa si deve occupare la politica se non dell’interesse pubblico? ”interesse pubblico” la privacy del cittadino. A chi governa la cosa pubblica, chiede di essere protetta da pratiche abusive di accesso a banche dati, da intercettazioni illecite, da ”schedature” illegali. E dunque perché il ceto politico tace con un’ostinazione degna di miglior causa? Se non si occupa delle minacce che deprezzano la qualità della nostra democrazia, come passa il tempo il ceto politico, in compagnia di quali pensieri, affaccendato intorno a quali misteriose faccende? [...] C’è in giro un’imponente massa di dati su ogni cittadino che permette di costruire, fino ai dettagli più riservati, un ”profiling” minuzioso di ciascuno. Questi dati sono custoditi in una diffusa rete di banche dati non protette da misure di sicurezza adeguate: è sufficiente un addetto corrotto o un ”custode” tentato dal potere per ottenere illegalmente qualsiasi dato protetto negli archivi. Quanto è diffuso il fenomeno? Quanti insider – non afferrati dalla magistratura – sono al lavoro per muovere ricatti personali, economici, politici; per piegare il concorrente o condizionare l’avversario; per controllare il dipendente o comunque per raccogliere informazioni riservate utili a ottenere fini illeciti? Almeno questo il Parlamento lo deve al Paese: dica come stanno le cose, che cosa è accaduto e può ancora accadere. Inauguri una commissione d’inchiesta per dare una dimensione al fenomeno. Al termine dei lavori, legiferi perché è ormai evidente che la normativa sulla protezione dei dati personali è fragile come un cristallo. Gli addetti, da tempo, sostengono che non c’è bisogno di più leggi, ma di un approccio realistico con norme più semplici, più trasparenti, soprattutto effettivamente applicabili. In gioco sono i nostri spazi di libertà e i nostri diritti. Interessano al Parlamento?» [8]

a cura di Daria Egidi