Varie, 28 maggio 2006
BARBATO
BARBATO Paola Milano 18 giugno 1971. Scrittrice. «Morboso, scioccante, politicamente scorretto. Lo chiamano thriller, ma Bilico è qualcosa di più, è una discesa negli abissi del dubbio, della paura, del male, ma è anche qualcosa in meno quando il colpo di scena arriva troppo presto (più o meno verso la metà del libro) e l’autrice è costretta a trascinarlo fino alla fine come un peso inutile. [...] sceneggiatrice di Dylan Dog, giovane erede di Tiziano Sclavi anche nelle paranoie creative, ha una biografia che sembra fatta apposta per creare il caso (è stata una bambina solitaria, malata di disistima, ha partecipato a tutti i provini del Grande Fratello, ha fatto la comparsa a Scherzi a parte e coltivato un amore-ossessione a senso unico per 13 anni) e ora l’editore Rizzoli la lancia, nel risvolto di copertina, come ”l’unica vera scrittrice di thriller italiana”. Effettivamente questo suo romanzo d’esordio, costruito secondo le regole del genere ma con contenuti estremi che lo rivoluzionano, comincia benissimo, mantiene le promesse fin verso la metà, perde di tensione alla fine. Bilico è pieno di rimandi, dal film Seven del regista David Fincher a certe atmosfere da Stephen King, ma non manca di originalità, a partire dalla caratterizzazione della protagonista, Giuditta Licari, psichiatra e anatomopatologa senza il glamour di Kay Scarpetta: bassa, tozza, né bella né brutta, incapace di provare sussulti di empatia per lo strazio a cui quotidianamente assiste. Legata ad Alessandro Amadei, un ex ispettore geniale e squilibrato, radiato dalla polizia, che la tiene in scacco con la sua lucida follia, Giuditta ha un rapporto di ambigua complicità con il suo giovane assistente Michelangelo Giglio che la venera e forse la ama, oltre a una serie di relazioni consumate virtualmente in varie chat erotiche. Dopo anni di ordinaria amministrazione criminale, Giuditta si trova a dover dare la caccia quasi da sola al Seviziatore, imprevedibile serial killer che uccide le sue vittime in modi atroci (descritti in pagine difficilmente digeribili, anche per chi è abituato al genere) e le ricompone come in un tableau vivant, lasciando sulla scena del delitto il ”trailer” che dovrebbe, per chi lo sa capire, dare un’anticipazione del delitto successivo. Fino a quando la situazione precipita e anche l’anatomopatologa diventa parte della messa in scena e non più osservatrice esterna.Il lettore si trova davanti delitti senza castigo né sensi di colpa in un mondo nerissimo in cui non esistono buoni o cattivi, non esiste giustizia ma soltanto le ossessioni individuali e dove la legge può trovare al massimo un capro espiatorio, l’agnello sacrificale che salva i peccati della società e le permette di andare avanti. Qui non ci sono spiegazioni paranormali o sovrannaturali, ma, come sanno bene i lettori di Dylan Dog, l’orrore peggiore è quello che sta dentro di noi. Il romanzo non sfugge a questa regola, il che finisce con l’essere il suo fascino e nello stesso tempo il suo limite. Non si può non ammirare l’esuberanza di incubi di Paola Barbato: svolti con geometrica razionalità riescono a trasmettere un profondo senso di inquietudine, il che, per un thriller, è segno che l’operazione, nel complesso, è riuscita. Però alla lunga i suoi personaggi rischiano di sembrare un po’ macchiettistici, come se l’autrice non avesse completato del tutto l’opera di creazione» (Cristina Taglietti, ”Corriere della Sera” 28/5/2006).