L’Espresso 01/06/2006, Roberta Corradin, 1 giugno 2006
Voglio vivere free. L’Espresso 1 giugno 2006. New York. Appuntamento alle 20,30 da Happy Time Deli, lato est di Fifth Avenue, tra la 35esima e la 36esima strada
Voglio vivere free. L’Espresso 1 giugno 2006. New York. Appuntamento alle 20,30 da Happy Time Deli, lato est di Fifth Avenue, tra la 35esima e la 36esima strada. In fondo al negozio lunghi tavoli di plastica beige. Un uomo e una donna mangiano indisturbati dalle brutte luci al neon. I freegans arrivano uno per volta, ma loro non sono freegans. Il dilagare del fenomeno che ricalca nel nome l’alimentazione vegan allerta i media: ogni settimana televisioni europee inviano troupe a New York per documentare i ”trash tours”, i raid davanti ai supermercati grazie ai quali i freegans si cibano, in nomine omen, gratis. Alla prima riunione ci sono più giornalisti che altro. Per ultimi arrivano gli attivisti del gruppo: Adam, Cindy, Janet. Cindy è giovanissima, bionda, alta, viso da bambina e andatura da valchiria, beve birra da una bottiglia avvolta in un sacchetto di carta; siede a capotavola e gentile, ma inesorabile, invita i giornalisti a lasciare la riunione. Noi restiamo: l’amica che da un paio di settimane frequenta il gruppo ci ha presentati come traduttori. All’ordine del giorno c’è il rapporto con la stampa. Come definirsi. Come rispondere alle crescenti richieste dei media: interviste, reportage televisivi. Come strutturare un evento freegan alla New York University. Rispondere a un invito della Boston University per andare a tenere una lezione sul freeganism. E, strano a dirsi per un gruppo ispirato al pensiero anarchico, gli ultimi due punti discussi sono la preparazione della cartella stampa e la questione se il freeganism sia legale o no (sì, lo è). Noi principianti siamo delusi: ci aspettavamo un’introduzione pratica, una serie di istruzioni in vista del trash tour programmato dopo la riunione. Tutto quello che sappiamo, per ora, è che più tardi visiteremo alcuni dei deli più costosi di Manhattan, apriremo i sacchi depositati in strada dai commessi e intercetteremo verdure, pane e frutta prima del passaggio dei camion della spazzatura. In un successivo incontro, ”Urban Foraging 101”, apprenderemo che c’è un galateo freegan: i sacchi vanno aperti e richiusi con cura; i prodotti scartati vanno rimessi dentro i sacchi. Nulla va lasciato per terra: i commercianti, se il camion della nettezza urbana trova disordine, rischiano una multa. «E noi li vogliamo amici », spiega Janet, organizzatrice dei Freegan Feasts, le cene di gruppo in cui si cucina il ”raccolto” della sera prima. Al primo trash tour, non crediamo ai nostri occhi. Nei sacchi troviamo frutta e verdura in ottimo stato, buttate via probabilmente solo per fare posto a nuove forniture. Mele rosse nemmeno un po’ ammaccate; pani confezionati da una nota bakery la cui etichetta ”sell by” (’da vendersi entro”) segna la data dell’indomani (dall’ultimo giorno di vendita, il pane si può ancora consumare per una settimana); pomodori ciliegini in vaschette di plastica incellophanate; pomodori tipo Pachino sorprendentemente sodi e sani; due casse di banane verdi che sembrano finite lì per errore. Patate senza nemmeno un germoglio, un’imperfezione che giustifichi lo spreco. Cipolle, aglio. E poi frutta tropicale (molto matura, ma ancora buona), peperoni, cavolfiori, champignons. Polli al forno chiusi in vaschette di plastica la cui etichetta dice che sono stati cotti lo stesso giorno. Qualcuno trova un astice ancora vivo, con gli elastici alle chele. Tutto questo davanti a un solo negozio. Allo stupore subentra lo scandalo. New York pullula di organizzazioni come City Harvest, che raccolgono avanzi da ristoranti, negozi, scuole di cucina, e servono pasti a diverse migliaia di persone senza casa ogni giorno. Perché i commercianti non chiamano una di queste associazioni di volontariato per raccogliere i prodotti ancora buoni? La risposta è: velocità. più rapido buttare che selezionare i prodotti da beneficenza. Così nove anni fa è nato il freeganism, che oggi mette sotto gli occhi di tutti l’ennesimo eccesso del benessere. I media, allontanati dalla riunione, ci fotografano e ci riprendono con le mani nei sacchi. Si esaltano al momento del ”dumpster diving” (tuffo nel cassonetto”). fondamentale il tempismo: conoscere l’orario in cui supermercati e bakeries posano i sacchi in strada, e sapere quanto tempo si ha a disposizione prima che passi il camion. Appena il camion arriva, ci si ritira in buon ordine. Idem per i cassonetti: gli attivisti del gruppo conoscono la collocazione, sanno a che ora vengono riempiti dai supermercati e quando vengono svuotati dai netturbini. Janet sale a cavalcioni di un cassonetto e tira fuori i sacchi appena depositati, altri analizzano il contenuto e procedono alla suddivisione. Ognuno prende secondo necessità. Siamo una ventina di persone e bastano due fermate perché tutti vadano via con borse e zaini stracolmi. Il dumpster diving colpisce l’immaginario tanto che a una cena un giornalista polacco fa letteralmente irruzione con la telecamera a spalla, gridando: « qui che mangiate la spazzatura?». La troupe russa e una garbata reporter francese cercano di capire la differenza tra il freeganism e il vivere di accattonaggio. Alla fine dei mercati, a Parigi come a Mosca, è frequente vedere persone che frugano tra la merce lasciata a terra dai banchetti. Lì si tratta di un reale problema di sussistenza. Qui, per molti, è una scelta morale. Lo è per Mariane, insegnante di Brooklyn, cattolica, che spiega: «Se questa banana viene buttata, lo sai di quante persone si calpesta il lavoro? Di chi l’ha raccolta, di chi l’ha caricata su una nave, di chi l’ha scaricata, di chi l’ha trasportata sino a questo negozio. per rispetto a tutte queste persone che non possiamo lasciare che il loro lavoro venga buttato via». Janet, una delle fondatrici del gruppo freegan newyorkese, precisa: «Io sono vegan, e sono freegan per dimostrare che ci si può alimentare benissimo, persino con prodotti biologici, con quello che l’America butta». Una coppia di artisti russi, messa in fuga dalla troupe connazionale da cui non vogliono farsi riprendere, è conquistata dal fattore ”caccia”: «Non risolve solo il conto della spesa. In una città in cui puoi comprare tutto, ti riporta a una dimensione umana, a trovare - e cucinare - quello che c’è. E poi si incontra gente interessante». Stessa motivazione per Bernard, regista che mette a disposizione per una cena collettiva il suo loft a Midtown, e sorprende tutti quando tira fuori 30 flutes (qualcuno ha trovato del Cava). Quasi nessuno è freegan integrale, ma lo sono i menù dei Freegan Feasts: al primo cucinano ratatouille di verdure con cipolla soffritta senza olio; funghi ripieni di pan grattato e radicchio; praline di banane. I giornalisti francesi sono presi di mira: «Andate da Daniel Boulud e da Jean Georges, o restate con noi?». Restano. E fanno il bis. Roberta Corradin