La Stampa 26/05/2006, pag.1-4 Mario Deaglio, 26 maggio 2006
Bastasse dire concertazione. La Stampa 26 maggio 2006. L’elemento più importante del discorso del presidente del Consiglio all’assemblea della Confindustria non sta nelle parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio ma nel modo in cui la platea le ha ascoltate: in un’atmosfera non di ostilità ma di profondissimo gelo, interrotto solo da brevi e freddi applausi di cortesia
Bastasse dire concertazione. La Stampa 26 maggio 2006. L’elemento più importante del discorso del presidente del Consiglio all’assemblea della Confindustria non sta nelle parole pronunciate dallo stesso presidente del Consiglio ma nel modo in cui la platea le ha ascoltate: in un’atmosfera non di ostilità ma di profondissimo gelo, interrotto solo da brevi e freddi applausi di cortesia. Da questo dato obiettivo occorre partire per esaminare i rapporti governo-imprenditori in quest’inizio di legislatura, tanto più che la mancanza di calore non pare determinata da motivi personali di malanimo nei confronti di Romano Prodi, e non è quindi superabile con i soli ingredienti della simpatia, del «buonismo» o del calore umano; Prodi, del resto, non ha provato a usare tali ingredienti, in un discorso sobrio e asciutto. Né la freddezza può essere imputabile a differenze ideologiche (la Confindustria ha variamente e utilmente dialogato e collaborato con governi di ogni tipo); essa misura piuttosto un’oggettiva distanza di posizioni e di impostazioni tra una componente fondamentale dell’economia e della società italiana e il governo (e, più in generale, il mondo della politica). Affinché tale distanza possa essere utilmente superata, sia il governo sia gli imprenditori dovrebbero cominciare a prenderne atto con franchezza e sottolineare il non molto che li unisce sulla base della condivisibile affermazione di Prodi che non si può prima risanare in conti pubblici e poi rilanciare l’economia ma occorre mettere in atto un’operazione simultanea di risanamento e di rilancio. Detto questo, occorre esaminare con attenzione le differenze. Prodi, come ha affermato con forza, ripone la sua fiducia nel metodo della concertazione ed è questo il primo termine sul quale le parti dovrebbero fare chiarezza. Appare difficile riproporre tal quale il vasto e articolato confronto tra i vertici del governo e delle parti sociali che salvò l’economia italiana nel 1992 e negli anni successivi: le parti sociali sono più frammentate e meno disciplinate, la semplice trasmissione alla base di un accordo siglato al vertice non appare più facilmente realizzabile né tra i lavoratori né tra gli imprenditori. Localismi e regionalismi rendono più difficile l’azione di governo; nuove tipologie d’impresa hanno difficoltà a farsi rappresentare dalle organizzazioni esistenti, così come nuove tipologie di lavoratori hanno difficoltà a riconoscersi nel sindacato. La concertazione rimane indispensabile per indicare principi, obiettivi e tendenze, ma non si può pensare oggi che poche firme sotto il testo di un accordo possano bastare a rimettere l’Italia sul sentiero virtuoso della competitività. Come si recupera allora questo sentiero smarrito? E’ sintomatico dei discorsi pronunciati all’assemblea confindustriale che le due parti che si confrontavano indicano come elemento essenziale qualcosa che deve fare qualcun altro: tagliate la spesa pubblica, ha chiesto al governo il presidente della Confindustria, impostate nuove strategie di crescita e di espansione internazionale, ha chiesto agli imprenditori il presidente del Consiglio. Perché il recupero della competitività possa avvenire davvero, sarebbe più appropriato che il governo cominciasse a domandarsi come si possono contenere le spese, a cominciare dalle «auto blu» (che uno studio del ministero dell’Economia stima nell’incredibile cifra di duecentomila) e che imprese e finanza si interrogassero su come dirottare risorse preziose dal finanziamento di attività come il calcio al finanziamento dell’innovazione. Occorrerebbe insomma che ciascuno cominciasse a rimuovere la trave dal proprio occhio anziché da quello del vicino. Una partenza in salita, quindi. Il mettere sul tavolo le differenze di vedute è però forse preferibile a un accordo di facciata che lasci intatte queste differenze. Mario Deaglio