Gazzetta della Sport 26/05/2006, pag.1-2 Beppe Severgnini, 26 maggio 2006
Qui in Brasile fanno già festa. Gazzetta dello Sport 26 maggio 2006. San Paolo (Brasile) Immaginavo di vederli felici per i Mondiali: li ho trovati che festeggiano la vittoria
Qui in Brasile fanno già festa. Gazzetta dello Sport 26 maggio 2006. San Paolo (Brasile) Immaginavo di vederli felici per i Mondiali: li ho trovati che festeggiano la vittoria. Per dieci giorni ho ricordato, con tatto, che prima bisogna giocare. Mi hanno guardato storto. Ronaldinho, Ronaldo, Kakà, Adriano, Roberto Carlos, Emerson: chi mette in campo una squadra così, deve preoccuparsi dei dettagli? Avversari, arbitri, imprevisti, stato di forma, scaramanzia: che importanza hanno? «Rumo Ao Exa», diretti verso la sesta vittoria! ripetono adulti, bambini, manifesti, spot, magliette, cartelli, braccialetti gialloverdi. E noi italiani? Be’, siamo gli avversari preferiti. A Berlino, il 9 luglio, i brasiliani dovranno pur battere una squadra: e vorrebbero fosse vestita d’azzurro. L’Italia gode di questo privilegio dal 1982, anno della vittoria in Spagna: 3 a 2, tripletta di Paolo Rossi, che ancora oggi, un quarto di secolo dopo, è ricordato come «o carrasco», il boia, ed è circondato da un timore rispettoso. Il Brasile del 1982 - quello di Zico, Falcao e Socrates, per intenderci - viene considerato il migliore di sempre, superiore perfino di quello di Pelé nel 1970. Eppure, con l’Italia, ha perso. Ai brasiliani, che sono di palato fino, importa relativamente poco della vittoria del 1994 negli Usa (ai rigori, dopo una finale noiosa, schierando una squadra normale): volevano batterci in Spagna, con quella magica «seleçao». La rivincita di quella partita non c’è stata: e tutti sperano sarà in Germania. Dimenticavo: queste cose me le ha confermate, a Brasilia, il direttore del «Correio Braziliense». Si chiama Paulo Rossi. Mi ha confessato che è un nome duro da portare, in Brasile. Gli credo. La sconfitta spagnola fu pesante:un italiano residente ricorda il silenzio irreale dopo il fischio finale («Sembrava il fall-out dopo la bomba atomica»). Una riedizione tedesca sarebbe sconvolgente. La nazione - anche, salvo eccezioni, i 20 milioni di brasiliani d’origine italiana ”vuole continuare a festeggiare, e potrebbe inacidirsi se qualcuno glielo impedisse. E’ una questione di cuore e di soldi. Non si comprano per la strada le magliette ufficiali a 179 reais (oltre 70 euro, un terzo del salario di un operaio), se si hanno dubbi sulla vittoria. OSSESSIONE La pubblicità e il marketing sono entrati su quest’ossessione collettiva a piedi uniti. Corruzione nel calcio? Dimenticata. Violenze intorno agli stadi? Rimosse. I campioni brasiliani tutti all’estero a caccia di gloria e di denari? Chi se ne importa. Il sogno è partito, e guai a chi lo ferma. Chiunque, quest’anno, abbia osservato Ronaldo mentre passeggiava sul prato del Bernabeu, e abbia pensato di vederlo riserva in Germania, arriva qui in Brasile e capisce l’assurdità dell’idea. Il Coniglio Mannaro – che qui ancora chiamano «Fenomeno» – resta il secondo giocatore più popolare: così almeno dicono le mie indagini presso i venditori di magliette e gadget. La maglia numero 9 di Ronaldo vende meno della numero 10 di Ronaldinho, ma più della numero 7 di Adriano. Se il c.t. Carlo Alberto Parreira pensasse di lasciarli fuori, gli sponsor – Nike in testa – se lo mangiano vivo. DENTONI Si parla di un miliardo di dollari di pubblicità intorno alla «seleçao». Il solo Ronaldinho è protagonista di dodici (12!) campagne pubblicitarie solo in Brasile. Uno accende la televisione e lo vede correre con in mano un deodorante, urlare a petto nudo in nome di una gelatina vegetale, promuovere una bibita di fianco a Maradona. I suoi dentoni allegri servono a vendere integratori (Gatorade), gomme da masticare (Bubbaloo Gollaço), figurine, videogiochi, cellulari, gelati. La supermodella Gisele Bündchen – amica di famiglia dei Severgnini emigrati a Porto Alegre, ho scoperto con soddisfazione – è una dilettante, in confronto. Il settimanale «Carta Capital »ha riassunto la situazione con una frase che non ha bisogno di traduzione: «O futebolvende tudo». Un columnist del giornale ha scritto che è un modo di restituire alla nazione ciò che è della nazione (colori, inno, bandiera). Qualcosa di vero c’è,ma a tre settimane dal Mondiale l’effetto è rintronante. Solo la notte, nel quartiere di San Paolo dove abita Kakà (elegante e ordinato, ovviamente), il buio borghese offre un momento di riposo. Fuori di lì, la sarabanda ricomincia. CONCORDIA Ho viaggiato dieci giorni dentro la festa per una vittoria annunciata. A Porto Alegre ho incontrato i frequentatori del forum «Italians», e li ho visti dividersi tra Internacional e Gremio, i cui rapporti sono affettuosi come quelli tra Lazio e Roma. Quando ho spostato il discorso sui Mondiali, e ho fatto notare che il Brasile non vince in Europa da oltre mezzo secolo, hanno subito ritrovato la concordia, e mi hanno guardato come un eccentrico. A Brasilia, città extraterrestre, abbiamo parlato di calcio all’auditorio del rettorato dell’università (UnB). Titolo: «Calcio e società: Italia e Brasile si confrontano ». Svolgimento: siamo due dei cinque paesi al mondo in cui il calcio è un grande romanzo popolare (Brasile, Argentina, Inghilterra, Italia, forse Spagna). La differenza è che noi siamo narratori ansiosi, voi raccontate con più gioia. A Rio de Janeiro ho girato tutto il giorno con una maglietta del Corinthias di San Paolo – non un’idea geniale – e sulla spiaggia di Ipanema ho discusso delle prospettive della «seleçao» con un artista del palleggio che indossava la maglia della nazionale (ho messo il video in rete, ma ho il timore che Moratti se lo compri). INCONTRO In una libreria di San Paolo ho tenuto un incontro con un regista d’origine italiana, Ugo Giorgetti, autore di due film sul calcio («Boleiros I» e «Boleiros II»). Ha giurato di non volerne girare mai più, perché – sostiene – «il calcio è il modo in cui il potere distrae i brasiliani dai problemi». Gli ho detto che il potere – in Brasile e in ogni altro Paese – non è abbastanza abile: si limita ad approfittare delle distrazioni che ci procuriamo da soli. Ma non l’ho convinto. Ora sto partendo. Sulla strada per l’aeroporto Guarulhos sei gigantografie di altrettanti giocatori (Ronaldinho, Ronaldo, Robinho, Roberto Carlos, Cafu e Kakà) mi salutano. Appaiono e scompaiono tra le luci gialle, come fantasmi colossali. Non li invidio: se vincono in Germania saranno colossi; se perdono, fantasmi. Altri risultati non esistono, dice la notte del Brasile. Beppe Severgnini