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 2006  maggio 19 Venerdì calendario

Flaubert segreto Quando il sesso sconfigge la morte. Corriere della Sera 19 maggio 2006. Di Flaubert, si credeva di aver letto tutto

Flaubert segreto Quando il sesso sconfigge la morte. Corriere della Sera 19 maggio 2006. Di Flaubert, si credeva di aver letto tutto. I romanzi, capolavori assoluti della letteratura francese come Madame Bovary, L’educazione sentimentale, Bouvard e Pécuchet. E la non meno straordinaria corrispondenza: le circa quattromila lettere conservate, unica fonte – si diceva – in grado di rivelare quanto la voce impersonale del narratore ottocentesco aveva programmaticamente rinunciato a depositare nei romanzi, il Flaubert più privato, il più intimo e segreto. La corrispondenza come unico risarcimento, per il lettore postero, della scelta maturata dallo scrittore normanno quando si era sentito uomo fatto: quella di non tenere più un diario, e di non scrivere mai memorie. Rifiutando di imitare sia il detestato Stendhal, sia l’amato Chateaubriand. Ma chi credeva di aver letto tutto, non aveva prestato sufficiente attenzione a una noterella vergata da Flaubert all’appuntamento con i suoi vent’anni: nel 1841, di ritorno da un viaggio nei Pirenei e in Corsica compiuto sotto la scorta di un dottore di Rouen, tale Jules Cloquet. Al promettente giovanotto, il pedante accompagnatore aveva raccomandato di mettere per iscritto «tutte le sue idee»; di chiudere i fogli in una busta, e di riaprire la busta dopo quindici anni, in modo da scoprire «un altro uomo». «Siccome è un consiglio che può essere buono per davvero, lo seguirò», aveva annotato Flaubert. Adesso, si è scoperto che in almeno due occasioni fatidiche della sua vita nel 1848 e nel 1869, in corrispondenza con la morte dei due migliori amici, Flaubert mantenne il proposito. Impugnò la penna, scrisse intorno al proprio lutto tutto quanto gli veniva in mente, mise i testi in una busta che sigillò a ceralacca. Per rileggerli dopo quindici anni? O per compiere un gesto simbolico, la sepoltura di un necrologio? O per consegnarli tali e quali alla posterità? Non sappiamo. Di certo, come per il più abusato degli artifici romanzeschi, gli scritti di Flaubert in morte dei due alter ego della sua vita, Alfred Le Poittevin e Louis Bouilhet, sono recentemente riemersi dal polveroso cassetto di una casa in Normandia. Dopo avere traversato un oceano di tempo largo oltre un secolo e mezzo, quei messaggi in bottiglia sono giunti fino a noi: li si può leggere nel volume Vie et travaux du R.P. Cruchard et autres inédits, curato da Matthieu Desportes e Yvan Leclerc. Sarebbe eccessivo sostenere che la nostra immagine di Flaubert esca completamente mutata da questo piccolo regalo del destino. Al contrario, accanto al catafalco dei due uomini che condivisero con lui rispettivamente la vie de garçon nella provincia francese dell’età di Luigi Filippo e la vie littéraire nella Francia di Napoleone III, riconosciamo un Flaubert che ci è familiare: con la sua capacità ineguagliata di analisi e di autoanalisi, di osservazione e di derisione. Neppure la scomparsa dei due amici più cari, destinati a occupare gran parte di quella ch’egli chiamava la sua «necropoli interiore», velò lo sguardo del Flaubert entomologo dell’umanità e di se stesso. Ecco allora, scrutati come al microscopio, i dettagli minuti e spesso triviali della vita che sopravvive alla morte. Un «grog al kirsch» da lui bevuto al cabaret, prima di mettersi in viaggio verso la casa di Le Poittevin. I due sigari fumati in giardino dopo la visione del cadavere. Durante la veglia funebre, il bisticcio con un domestico, che vuole impedire a Flaubert di spostare le torce per potersi leggere un libro. E sulla via del cimitero, gli strani movimenti della bara, «che va come una nave»... La scomparsa degli amici migliori non deprime neppure il divorante appetito sessuale di Flaubert: prima di salire sul treno che da Parigi l’avrebbe portato a Rouen per il funerale di Bouilhet, dopo avere consumato «una cotoletta di vitello con pomodori farciti» al Grand Café della stazione, eccolo ricorrere agli svelti servigi di «una puttana». Se questo è il Flaubert che già conoscevamo, i due testi sigillati con la ceralacca permettono tuttavia di scoprirne un altro, totalmente inedito. In effetti, sia per il decesso prematuro del trentenne Le Poittevin, sia per quello annunciato del cinquantenne Bouilhet, capitò bensì allo scrittore di descrivere per lettera ad altri amici a Maxime Du Camp, a George Sand i propri gesti e i propri sentimenti davanti a quelle morti, tanto periodizzanti nella sua vita. Ma appunto, conoscevamo sinora quanto Flaubert aveva voluto farne sapere agli altri. Ora, ci è dato di scoprire quanto egli volle dirne a se stesso. Quando nel 1848 muore Le Poittevin, Flaubert ha ventisette anni. Abbastanza per rimanere atterrato dalla perdita, ma non così tanto da sentirsi atterrito, chiamato in causa personalmente: la campana di quella morte non suonava per lui. quanto contribuisce a spiegare il suo virile atteggiamento davanti allo spettacolo del cadavere. Oltreché il ciglio asciutto («non riuscivo a piangere»), la decisione di maneggiare il corpo di Alfred, che «sembrava una mummia egiziana», fino quasi ad appropriarsene. Il lenzuolo funebre accantonato. Il cadavere rigirato, preso per le spalle, per la testa. E poi, a dispetto del «fetore», la testa baciata «sul lato sinistro, alla tempia». A ventisette anni, Flaubert non ha paura. In chiesa, gli sembra di riconoscere l’«anima» di Le Poittevin nella «fiamma di una torcia vacillante dentro una vetrata». «La cercavo da martedì, tra le stelle e tra gli uccelli», annota Flaubert: secondo la filosofica vena di un panteismo in cui gli pare di poter confidare, e come per un omaggio al compagno che fino all’ultimo, ancora pochi minuti prima di andarsene, si era ostinato a leggere Spinoza. Vent’anni dopo, nel 1869, la morte di Louis Bouilhet, la sua «bussola letteraria», cui Flaubert aveva pubblicamente dedicato Madame Bovary suscita in lui una reazione ben diversa. Giunto nel giardino del defunto, non ciglia asciutte, ma un pianto dirotto. E questa volta, Flaubert rinuncia anche soltanto ad avvicinare il cadavere. «Non ho osato vederlo! Sento che sono più debole di vent’anni fa». «Non ho più solidità interiore. Mi sento usurato». Sulla strada del cimitero, più che ondeggiare come una nave, la bara gli sembra adesso procedere troppo in fretta... Fino al momento più terribile: la deposizione della cassa nella fossa, e la gettata di terra. «Avevo paura del rumore dei sassi». In nessun luogo dell’opera di Flaubert non nei romanzi, non nella corrispondenza si erano mai lette parole altrettanto scoperte sopra il suo sentire davanti alla morte. Chiaramente, a quarantasette anni, l’autore di Madame Bovary visse la fine di Bouilhet come un’anticipazione della propria. Soltanto dopo essere ritornato a casa, Flaubert si decise a baciare «nel pensiero» la «bella fronte» dell’amico. Dopodiché, posò la penna e riscaldò la ceralacca. «Non mi trovo più niente da dirmi», scrisse (inciampando nella sintassi) in fondo al secondo dei testi necrologici da lui messi in busta, e ora ritrovati. Questa volta, la campana minacciava di suonare anche per lui. Sergio Luzzatto