La Repubblica 20/05/2006, pag.1-42 Umberto Eco, 20 maggio 2006
Piccola lezione sull´arte di dimenticare. La Repubblica 20 maggio 2006.Una volta per scherzo, con alcuni amici, si era inventata una lista di discipline inesistenti da mettere a concorso per cattedre universitarie, del tipo Ippica Azteca, Urbanistica Nomadica, Istituzioni di Devianza, Terapia degli Insiemi non Normali o Microscopica degli Indiscernibili
Piccola lezione sull´arte di dimenticare. La Repubblica 20 maggio 2006.Una volta per scherzo, con alcuni amici, si era inventata una lista di discipline inesistenti da mettere a concorso per cattedre universitarie, del tipo Ippica Azteca, Urbanistica Nomadica, Istituzioni di Devianza, Terapia degli Insiemi non Normali o Microscopica degli Indiscernibili. Una tra le materie più interessanti era l´Ars Oblivionalis come opposto delle Artes Memoriae, e non è un caso che abbia deciso di riprendere questo tema per la giornata odierna, alla presenza di Paolo Rossi, che delle mnemotecniche ha fornito una storia e una analisi sino a oggi rimasta insuperata. Ma per superare il maestro volevamo elaborare delle tecniche non per ricordare bensì per dimenticare. Johannes Spangerbergius nel suo Libellus artificiosae memoriae (Wittenberg,1570) ricordava che si dimentica per corruzione, e cioè per dimenticanza delle specie passate, per diminuzione (vecchiezza e malattie) e per ablazione di organi cerebrali. A queste potrei aggiungere l´ubriachezza molesta e la droga, ma in tutti questi casi si tratta di fenomeni "naturali", chimico-biologici. Invece un´ars oblivionalis dovrebbe procedere così come procede un´ars memoriae: la quale, non potendo ovviare alla diminuzione e all´ablazione, offre precetti retorici per sopperire alla corruzione, ovvero, come si direbbe oggi, al deterioramento della traccia. Parimenti un´ars oblivionalis dovrebbe porre i principi non per ovviare a ma per produrre il deterioramento della traccia attraverso un progetto volontario. Le mnemotecniche classiche, come ben sapete, consigliavano, per esempio, di associare un dato sillogismo o un elemento di conoscenza fattuale a una immagine sanguinosamente mostruosa collocata nella terza stanza a destra di un immenso palazzo, e noi possiamo capire perché l´evocazione di quella scena potesse richiamare alla mente il dato sia pure idiosincraticamente associatole, o perché per convenzione culturale Diana che corre in mezzo a cani latranti potesse far ricordare la caccia. Ma è difficile immaginare come la rievocazione della stessa scena possa cancellare, rimuovere, abolire la stessa nozione. A mia scienza l´unico mnemotecnico che si è interessato al problema è Filippo Gesualdo nella «Lettione xx» della sua Plutosofia (1592) dove si passano in rassegna i «metodi per l´oblivione». Escluse le soluzioni mitiche come bere l´acqua del Lete, Gesualdo ricorda: «Primo, havendo recitate, e volendo ma volendo mandar in oblivione le Imagini; ò di giorno con gli occhi chiusi, ò di notte fra le tenebre, si vadi con la mente girando per tutti li luoghi ideati, con imaginarci un´oscurissima tenebra notturna che cuopra tutti li luoghi, e così procedendo, e retrocedendo più volte con la mente, e non vedendoci imagini facilmente svanisce ogni figura. Secondo, si vadi scorrendo per tutti li luoghi, có la mente à dritto, à roverso, e si contémplino vacoi e nudi, tali quali la prima volta senza alcuna imagine furno formati, e questo discorso si facci più volte». I metodi erano sette e contemplavano ancora: immaginare le statue che popolavano il palazzo a capo chino, con le braccia pendenti; coprirle di una mano di gesso, tende bianche, lenzuoli verdi o panni neri; collocare nuove figure al posto di quelle originarie così come «chiodo scaccia chiodo»; pensare a una gran tempesta di venti, di grandini, di polvere o «d´inondatione d´acque», che confonda ogni cosa; raffigurarsi un omo orribile e spaventoso che con una comitiva di armati entri, fracassi le imagini e «facci fuggire per le porte e saltar per le fenestre tutti gli animali, e persone mobili che erano nei luoghi e se questa rovina si facesse fare di eserciti nemici, come da Turchi, e Pagani, sarebbe di maggior facilità; poiché quello spavento confonde, e manda ogni cosa sossopra». Alla fine i luoghi avrebbero dovuto apparire nudi e vuoti. Ma temo che tutti questi artifici permettano solo di ricordare che si voleva dimenticare qualcosa, non di dimenticare quel qualcosa. Questo avviene perché le arti della memoria sono artifici semiotici ovvero segni, i quali per antica definizione sono qualcosa che sta agli occhi di qualcuno al posto di qualcosa d´altro, o, come voleva Agostino, res praeter speciem, quam ingerit sensibus, aliud aliquid ex se faciens in cogitationem venire. Anche fare un nodo al fazzoletto è artificio semiotico, così come lo era la sequenza di pietruzze o fagioli che Pollicino disponeva per ritrovare la strada nel bosco. Sono due artifici diversi, perché il nodo al fazzoletto vale come segno arbitrario per qualsiasi cosa io decida di associargli, mentre la sequenza di pietruzze istituisce una omologia vettoriale tra la successione delle pietre e il cammino da percorrere e sta per quel cammino e non per qualsiasi cammino possibile - ma questo ci dice solo che gli artifici mnemotecnici mettono in gioco procedimenti semiosici diversi, sino appunto al sistema complesso del palazzo abitato da statue. In ogni caso tutti questi artifici sono strumenti per rendere presente qualcosa alla nostra mente, ed è proprio per questo che non si può costruire un´ars oblivionalis sul modello di una mnemotecnica, perché è proprio di ogni semiotica permettere di presentificare l´assenza. Come diceva Abelardo persino affermare che nulla rosa est attualizza in qualche misura, per lo meno nella nostra mente, la rosa - e non ne distrugge il ricordo. Non esistono dunque tecniche per dimenticare? Suggerirei che si può dimenticare, e volontariamente, sia grazie all´interferenza tra informazioni sia grazie al loro eccesso. Spesso una nozione o una parola non vengono dimenticati, bensì confusi con altre nozioni o con altre parole, sia per pseudo-sinonimia (per esempio si confondono tra loro le parole /paronomasia/ e /antonomasia/) sia perché inizialmente di fronte a due cose (parole, nozioni, azioni da compiere) non sappiamo quale sia quella giusta, poi riceviamo l´informazione esatta, ma da quel momento ricordiamo insieme errore e correzione senza ricordare quale sia l´uno e quale sia l´altra. - ovvero il dilemma ci ha impressionato più che non la sua soluzione, ed è quello e non questa che ci si è impresso nella memoria. Per esempio, essendomi confuso la prima volta, io non saprò mai se strawberry vuole dire «mora» o «mirtillo». Questi fenomeni non si verificano per sottrazione (c´era qualcosa che poi scompare) ma per addizione (due nozioni o due termini si sovrappongono nel ricordo). Se io riesco a pronunciare per ore la frase «strawberry è mora o mirtillo?» è possibile che alla fine non riesca più a ricuperare l´informazione giusta. Non si dimentica per cancellazione ma per sovrapposizione, non producendo assenza ma moltiplicando le presenze. E questo spiega perché uno dei terrori dei mnemotecnici fosse di ricordare talmente da confondersi le idee e quindi praticamente dimenticare. Pare infatti che a un certo punto della sua vita Giulio Camillo si scusasse per lo stato confusionale in cui si mostrava, e per i suoi difetti di memoria, allegando la sua lunga e frenetica applicazione ai teatri del mondo. E d´altra parte nella sua polemica contro le mnemotecniche Agrippa (De vanitate scientiarum) aveva affermato che la mente viene resa ottusa da quelle immagini mostruose, e sovraccaricandosi è condotta alla pazzia. La dimenticanza per eccesso di informazione e per interferenza tra informazioni caratterizza il territorio dei mass media. Non intendo occuparmi a dimenticanze provocate da sottrazione di informazione (come la censura, o il Times di Orwell quotidianamente riscritto di 1984), ma cito sempre come esempio di dimenticanza per eccesso d´informazione il New York Times della domenica. Esso come è noto, tra corpo centrale e supplementi, consiste di centinaia di pagine. Non si può negare che esso contenga tutte le informazioni di rilievo che riguardano e quel giorno e quella settimana. Ma neppure si può negare che una intera settimana sia insufficiente per leggerlo - e se ci si riesce alla fine si sono immagazzinate tante informazioni da non ricordarne più nessuna. Il massimo di informazione coesiste col massimo di irrilevanza. Oggi l´esempio principe di informazione eccedente è dato da Internet. Abbiamo tutti fatto esperienza di una ricerca sul Web in cui eravamo partiti per apprendere qualcosa, abbiamo trovato troppo, abbiamo impiegato molto tempo per gettare via informazioni che ci sembravano inutili o false, ma più ancora ci siamo perduti per vari svincoli inter e ipertestuali che ci rinviavano ad altre informazioni, certo collegate a quella che cercavamo, ma sempre più lontane. E alla fine o non ricordiamo più che cosa stavamo cercando o in ogni caso su quel tema ne sappiamo meno di quando avevamo iniziato a navigare. Non so se la dimenticanza per eccesso possa diventare, da incidente casuale, progetto volontario. Possiamo decidere, per dimenticare qualcosa, di perderci nei labirinti dell´informazione eccedente? La stessa casualità dell´esito ci suggerisce che anche in questo caso un´Ars Oblivionalis sia di fatto impossibile. Ma forse questo accade perché una mnemotecnica è solo una semiotica monca. Essa è simile a un semplice dizionario o repertorio di unità significanti che non possono combinarsi tra loro. Una mnemotecnica non consente l´articolazione di discorsi mnemotecnici, e cioè non permette (come il linguaggio verbale o quello pittorico) di produrre dei testi. Voglio dire che con una mnemotecnica si può ricordare il nome di tutti i sette nani, ma non si può raccontare la storia di Biancaneve. E invece si possono produrre oblio o cancellazione proprio a livello dei processi testuali. Il senso di una espressione è un pacchetto potenzialmente assai vasto di istruzioni per interpretare l´espressione in diversi contesti e per trarne, come voleva Peirce, tutte le più remote conseguenze illative. Su tali basi, di una espressione si dovrebbe allora conoscere in linea di principio ogni possibile conseguenza, mentre in pratica si conosce (o si ricorda) solo quella porzione attivata da un determinato contesto. Interpretare l´espressione in contesto significa magnificare certi interpretanti e narcotizzarne altri, e narcotizzarli vuole dire rimuoverli provvisoriamente dalla nostra competenza, sia pure per la durata dell´interpretazione in atto. Se l´interpretazione di un segno, come voleva Peirce, ci fa sempre apprendere «qualcosa di più», questo qualcosa di più (in un contesto dato) lo apprendo sempre rinunciando a qualcosa di meno, e cioè escludendo tutte le altre interpretazioni che in altro contesto avrei potuto dare della stessa espressione. Se in linea di principio deve fare parte del significato enciclopedico di Dublino anche quanti chilometri questa città dista da Galways o da Clonmacnoise, quando leggo lo Ulysses apprendo di Dublino molte cose, ma sono obbligato a trascurare (e a fare come se avessi dimenticato - nel caso le conoscessi prima) proprio queste. Vi sono molti casi in cui, nel corso dell´interazione tra un lettore e un testo, si danno fenomeni di dimenticanza in qualche modo incoraggiati dal testo. Se, come ho ricordato nel mio Lector in fabula, un testo è una strategia che mira a suscitare una serie di interpretazioni da parte di un Lettore Modello, si possono dare testi che contemplano, come parte della loro strategia, una presunzione di dimenticanza da parte del lettore, la dirigono e incoraggiano. Spesso il testo vuole che qualcosa venga letto per così dire in modo quasi subliminale, e poi consciamente tralasciato come di scarso rilievo. Il caso più esplicito di dimenticanza incoraggiata è dato dal romanzo giallo. Per riferirci ad uno dei più famosi di essi, The murder of Roger Ackroyd di Agatha Christie, è noto che il racconto, intende colpire alla fine il lettore con la rivelazione che l´assassino è il narratore. Per rendere più gustosa la sorpresa, l´autrice deve convincere il lettore che esso è caduto nella trappola non per malizia sua, di lei, ma per propria insipienza (ovvero, l´autrice vuole che il lettore ammiri la malizia con cui il narratore non solo lo fa cadere nella trappola, ma poi pretende che egli se ne assuma la responsabilità). A questo scopo il narratore del romanzo alla fine avverte il lettore che egli non gli aveva di fatto taciuto nulla. «Sono piuttosto soddisfatto delle mie doti di scrittore. A esempio, che cosa potrebbe essere più accurato e preciso dei seguenti periodi?». Ed ecco che il narratore, e con lui l´autrice, elencano una serie di brevi accenni, tutti testualmente presenti, che il lettore non può che aver dimenticato a causa della loro irrilevanza strategica, e che se fossero stati interpretati secondo una sindrome del sospetto, avrebbero rivelato la verità. Naturalmente il lettore non doveva nutrire sospetti nel confronti del narratore, e qui sta il sapore del gioco, ma questo romanzo sembra l´epitome stessa di una dimenticanza testualmente incoraggiata. Giustamente Sciascia nella postfazione all´edizione Mondadori negli Oscar del Giallo osserva che «Poirot arriva alla scoperta che il dottor Sheppard è colpevole leggendo tutto quello che il narratore veniva raccontando; e cioè leggendo il racconto stesso che noi leggiamo». Ma Poirot è più del lettore modello della Christie, è il suo complice e fa quello che essa non voleva che il lettore modello facesse. Poirot è un Funes borgesiano che ricorda tutto. L´accenno a Borges non è casuale, perché c´è una serie di racconti scritti da Borges e Casares, e cioè le storie di Don Isidro Parodi, che sembrano basati sullo stesso procedimento, ma portato all´esasperazione e, direi, alla parodia metafisica. Don Isidro Parodi dall´interno di un carcere, e sempre ascoltando racconti e rapporti di personaggi stravaganti o pochissimo attendibili, alla fine arriva sempre a sciogliere l´enigma e vi arriva perché ha ritenuto pertinente un certo dato di cui il racconto parlava. Tal che alla fine il lettore è tentato di chiedersi perché anch´egli non è pervenuto a vincere, dato che aveva in mano le stesse carte di Isidro Parodi. La malizia di Borges sta nel fatto che i particolari che si accumulano nel racconto sono tanti, e tutti egualmente enfatizzati (ovvero tutti raccontati a uno stato enfatico zero), e dunque non c´era alcuna ragione per cui il lettore dovesse memorizzare il particolare A piuttosto che il particolare B. Di fatto non c´è neppure alcuna ragione perché il particolare A dovesse essere rilevato come pertinente da don Isidro. Semplicemente don Isidro è un mostro, e più di Funes, perché non solo non dimentica niente, ma all´interno del flusso memoriale che lo ossessiona riesce a far risaltare l´unica cosa che conta ai fini della soluzione. Il testo borgesiano, raccontandoci di un personaggio che ricorda tutto, in effetti ci parla metanarrativamente di un lettore che non ricorda nulla, e di un testo che fa di tutto per indurlo a dimenticare. Tutti i testi che abbiamo citato inducono alla dimenticanza per sovrabbondanza disordinata di particolari. Sfido chiunque a ricordare che cosa ci fosse nel cassetto di Leopold Bloom descritto nel penultimo capitolo dello Ulysses. Visto che si tratta di un microcosmo in cui c´è tutto, nessuno sa dire che cosa ci fosse (a meno che non abbia riletto il capitolo qualche decina di volte: ma in tal caso saremmo alla memorizzazione meccanica, come quando si apprende una poesia a memoria). Potremmo dire che la dimenticanza prodotta da un testo è transitoria, è un effetto collaterale, dovuto a ragioni di economia interpretativa, e che quello che un testo fa non è ciò a cui pensava Gesualdo nel delineare una serie di tecniche impossibili per dimenticare un singolo item della nostra memoria. Però, a ben rileggerlo, ci si accorge che, senza volerlo, Gesualdo ci descriveva metaforicamente il modo in cui un testo ci fa in qualche modo mettere tra parentesi (come a dire: dimenticare almeno per il tempo della lettura) quello di cui non intende parlare. Un testo in fondo oscura quell´immensa porzione di mondo di cui non s´interessa; e vi dà una mano di gesso; sostituisce le immagini che noi abbiamo del mondo con quelle proprie ed esclusive del suo universo possibile, così che «con molta attentione e grand´isforzo di mente» si imprimano e signoreggino nella nostra mente. E meglio ancora se leggiamo il testo (o lo guardiamo, se è testo visivo) come se ci isolassimo con esso e in esso «nelle tenebre, e nella quiete della notte», così che «l´intensa e vivace idea» delle nuove immagini «scacci le prime Idee». Un testo, nella misura in cui ci assorbe, fa piazza pulita del mondo che esisteva prima di esso, e di cui esso non parla, al quale non fa alcun riferimento, come se il suo discorso fosse «una gran tempesta di venti, di grandini, di polve. di ruine di case, di luoghi, di tempij, d´inondatione d´acque, che confonda ogni cosa», come se esso fosse, rispetto al mondo esterno, « un´Huomo inimico. il quale con una comitiva di compagni armati, entri e passi con impeto per li Luoghi, e con flagelli, bastoni, & armi scacci li simolacri, percuota le persone, fracassi le imagini, facci fuggire per le porte e saltar per le fenestre tutti gli animali, e persone mobili che erano nei luoghi»; e alla fine ci presenti un altro universo, a proprio modo «chiaro, quieto e tranquillo». Visto che non esiste un´Ars oblivionalis, la dimenticanza testuale è l´unica che ricordi le vere e proprie forme di dimenticanza (sia pure e sempre transitorie) già note ai nostri antenati, che conoscevano molti modi per entrare in uno stato di totale assorbimento mentale, così da dimenticare il resto del mondo, attraverso l´esperienza del rapimento amoroso, della preghiera, di un attimo di contemplazione gioiosa della natura o di un volto amato, della notte oscura dell´estasi mistica. Tutti casi in cui si dice «per un attimo mi ero dimenticato di tutto il resto». E questa è una delle non ultime ragioni per cui fa bene leggere, non per apprendere e ricordare, ma per ignorare e scordare - così come funzione principe della biblioteca e della enciclopedia non è solo conservare quello che valeva la pena di ricordare ma anche filtrare e cancellare quello che non vale la pena di sapere. Umberto Eco