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 2006  maggio 22 Lunedì calendario

In principio il nulla. La Repubblica 22 maggio 2006. In principio erano i principianti, e agli inizi erano gli iniziati: per gli uni e per gli altri, il mondo e la vita sono venuti in essere nelle maniere più disparate e fantasiose

In principio il nulla. La Repubblica 22 maggio 2006. In principio erano i principianti, e agli inizi erano gli iniziati: per gli uni e per gli altri, il mondo e la vita sono venuti in essere nelle maniere più disparate e fantasiose. Ad esempio, per i Fulani, nomadi sahariani, tutto deriva da una goccia di latte. Per i Boscimani dell’ Africa australe, gli esseri viventi fuoriuscirono da una profonda buca; per gli Zulu, da un letto di canne; per i Kayapò amazzonici, gli indios discesero dal cielo. Per i Bafia africani, agli inizi c’ era una grande aquila; per gli Yoruba nigeriani, un pollo a cinque dita; per i Masai, un drago; per gli indiani Algonchini, una grande lepre; per i Cree nordamericani, un grande castoro; per i Pigmei, due uova di tartaruga; per gli Aztechi, due serpenti piumati; per gli Iban del Borneo, due uccelli; per i Baia equatoriali, un orco malvagio; per i melanesiani delle Nuove Ebridi, un vecchio seduto nel vuoto; per i pellirossa Navaho, una dea turchese; per gli Apache, una donna dipinta di bianco; per i Sioux, una donna con due facce; per gli Irochesi, una donna piovuta dal cielo. Per gli Witoto amazzonici, il mondo si è materializzato da un sogno; per gli Omaha nordamericani, le creature passano direttamente dalla pura spiritualità all’ incarnazione; per gli Eschimesi, la terra è caduta dall’ alto, e gli uomini sono emersi dal suolo. In principio e agli inizi, in altre parole, ciascuno mette ciò che conosce. E se sa parlare, e magari anche scrivere, ci può mettere la Parola stessa. Così fa, ad esempio, il Popul Vuh maya, secondo il quale i due progenitori Tepeu e Gucumac, ricoperti di piume verdi e azzurre, si incontrarono nell’ oscurità della notte, meditarono e parlarono fra loro, e unendo i loro pensieri e le loro parole diedero inizio alla creazione. Analogamente, il Vangelo secondo Giovanni pone agli inizi delle cose il Logos, affermando che «tutto è stato fatto per mezzo di esso, e senza di esso nessuna delle cose è stata fatta»: un Logos che nella sofisticata e speculativa Grecia era inteso nel senso astratto di Parola o Ragione, cioè ancora una volta di linguaggio e di pensiero, e nella rozza e pratica Palestina finì per materializzarsi concretamente «facendosi carne e venendo ad abitare in mezzo a noi». Naturalmente, tutti i miti che pongono qualcuno o qualcosa in principio o agli inizi sono fallimentari in partenza, perché non fanno che spostare di un passo all’ indietro il problema delle origini: come capiscono anche i bambini, che infatti immediatamente lo notano, l’ affermazione che qualcuno o qualcosa ci ha creati provoca immediatamente il nuovo problema di chi o che cosa abbia creato quel qualcuno o quel qualcosa. Il primo tentativo di soluzione seria, cioè radicale, al problema si trova nell’ Inno della Creazione del Rig Veda: «In principio non c’ era il Non-Essere, e non c’ era l’ Essere. Non c’ era l’ atmosfera, e non c’ era il cielo. Non c’ era la morte, né l’ immortalità. Niente distingueva la notte dal giorno. Tutto era tenebra coperta di tenebra, l’ universo era un indistinto ondeggiare. E il principio vitale che era racchiuso nel vuoto generò se stesso come Uno, mediante la potenza del proprio calore. Ma chi sa veramente, chi può veramente spiegare da dove è originata la creazione?» Qui, finalmente, non si presuppone più assolutamente niente o nessuno agli inizi: non solo una materia primordiale plasmata da un Demiurgo, come nel Timeo platonico o nel Genesi ebraico, ma neppure un Creatore che crea dal nulla, come nell’ ortodossia cristiana derivata da un versetto dell’ apocrifo secondo libro dei Maccabei, poi fatto proprio da Agostino nelle Confessioni. Ed è proprio questa concezione matura e radicale che è stata annessa sia dalla fisica che dalla matematica: una concezione che richiede un’ accettazione e una rivalutazione del vuoto e del nulla, troppo a lungo aborriti e rimossi dalla civiltà occidentale, e altrettanto a lungo coccolati e vezzeggiati da quella orientale. Anche se, naturalmente, la divergenza da alcune mitologie e la convergenza con altre non è che una curiosità per la scienza, perché essa non solo ritrova da sé ciò che le serve, ma lo rielabora in un linguaggio che, come diceva Goethe, subito fa apparire le cose diverse: cioè, incomprensibili agli analfabeti matematici che possono pascersi soltanto di cibo mortale. Quanto al cibo celeste, esso è appunto dieteticamente costituito di vuoto e nulla. Secondo la fisica moderna, infatti, «in principio era il vuoto»: un’ affermazione in perfetto accordo con il «Brahaman è il vuoto» della Chandogya Upanishad, o con «il Tao è vuoto» del Tao Tze Ching. E non soltanto perché, secondo la relatività generale, la materia non è altro che una discontinuità del campo gravitazionale: cioè, un buco in un’ entità puramente matematica. Ma anche, e soprattutto, perché secondo la meccanica quantistica il vuoto è in realtà un teatro sul cui palcoscenico continuamente appaiono e scompaiono particelle e antiparticelle, grazie al principio di indeterminazione di Heisenberg. Anche quello che noi chiamiamo universo si può vedere come una fluttuazione del vuoto cosmico, un non-nulla spontaneamente generato dal nulla, senza che questo richieda alcuna violazione della legge di conservazione dell’ energia. Come infatti ha compreso nel 1973 Edward Tryon, basta assegnare al campo gravitazionale un’ energia negativa, pari a quella positiva posseduta dalla materia, per poter interpretare l’ apparizione della forza gravitazionale come il prezzo che l’ universo paga per creare materia pur mantenendo la sua energia totale nulla, come in effetti essa dev’ essere in un universo vuoto che precede la creazione. Alla domanda di Leibniz: «Perché c’ è qualcosa invece del nulla?» oggi si può dunque rispondere. E non solo, metaforicamente: «Perché Dio ha voluto così». Ma, scientificamente: «Perché il nulla è instabile e la materia è da esso generata, non creata, della stessa sostanza del niente». Se proprio si vuole pregare, allora, bisogna farlo come suggerì Hemingway in uno dei Quarantanove racconti: «Nulla nostro, che sei nel nulla, sia santificato il tuo nulla, venga il tuo nulla, sia fatto il tuo nulla, dovunque nel nulla. Dacci oggi il nostro nulla quotidiano, e rimetti a noi i nostri nulla, come noi li rimettiamo agli altri nulla. E non ci indurre nel nulla, ma liberaci dal nulla». E così pregano implicitamente i matematici, che fondano anch’ essi l’ intera loro disciplina sul principio che «in principio era il vuoto»: in questo caso nella forma senza forma dell’ insieme vuoto, che non ha nulla dentro di sé. è stato Gottlob Frege a scoprire, nel 1884, che sulla teoria degli insiemi inventata o scoperta da Georg Cantor si poteva fondare l’ intera matematica, a partire dall’ aritmetica. Il punto di partenza è semplice, e consiste nell’ identificare lo zero con l’ insieme vuoto. Meno ovvio è definire l’ uno come un insieme privilegiato di un solo elemento, cioè lo zero: ossia, con l’ insieme il cui unico elemento è l’ insieme che non ha nessun elemento. E, più in generale, un numero intero come l’ insieme dei suoi predecessori: ad esempio, il due come l’ insieme dello zero e dell’ uno, e dunque dell’ insieme vuoto, senza elementi, e dell’ insieme che contiene come unico elemento l’ insieme vuoto stesso. In termini più concreti, si potrebbe immaginare un insieme come una scatola che contiene i suoi elementi: tenendo presente, naturalmente, che le pareti di queste scatole sono puri confini mentali e immateriali. In tal caso, lo zero sarebbe una scatola vuota, senza nulla dentro o, se si preferisce, con il nulla dentro: tutta contenitore e niente contenuto, cioè, come la maggior parte dei programmi televisivi, delle opere letterarie e delle teorie filosofiche (e anche, naturalmente, degli articoli di giornale). L’ uno sarebbe invece una scatola che contiene un’ unica scatola, vuota. Il due, una scatola che contiene due scatole: una vuota, e l’ altra che contiene una scatola vuota. E così via. Tutti gli insiemi sono dunque scatole che contengono scatole che contengono scatole, ma a forza di rompere queste scatole per vedere cosa c’ è dentro, prima o poi si arriva sempre a scatole vuote, oltre le quali non si può più rompere: la matematica è dunque, letteralmente, un edificio di pure forme che si dissolve in ultima analisi nel nulla. Allo stesso modo, si rimane con niente in mano se si cerca l’ essenza della cipolla pelandola o del carciofo sfogliandolo: metafore che si trovano nel Peer Gynt di Henrik Ibsen, in Vestire gli ignudi di Luigi Pirandello e nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, a memento del fatto che in principio era il nulla e alla fine tutto vi ritornerà. Piergiorgio Odifreddi