Il Sole 24 Ore 20/05/2006, Walter Riolfi, 20 maggio 2006
Il Sole-24 Ore, sabato 20 maggio Non so quanto sia rassicurante: ma l’inflazione o, meglio, la presunta paura dell’inflazione, non c’entra quasi niente con l’ennesima caduta delle Borse in settimana
Il Sole-24 Ore, sabato 20 maggio Non so quanto sia rassicurante: ma l’inflazione o, meglio, la presunta paura dell’inflazione, non c’entra quasi niente con l’ennesima caduta delle Borse in settimana. I problemi del mercato azionario sono dunque altri: ma sgombrato l’equivoco, restano tutte le domande che ci si p oneva una decina di giorni fa, rese ancor più inquietanti dalle flessioni di Wall Street (-1,9% l’S&p, - 2,2% il Nasdaq) e dalla caduta del 4,5% per lo Stoxx (-4,3% Londra, -4,1% Francoforte, -4% Parigi, -3,4% Milano). Non avendo una risposta, s’è tentati di dare le spiegazioni di comodo che si usano in queste occasioni: le Borse erano salite troppo, cosicchè la correzione apparirebbe naturale. La qual cosa, se possiede un pizzico di logica per le piazze europee che, da inizio anno al 9 maggio erano salite dell’11% (12% quelle dell’area euro), non s’addice a Wall Street che al massimo aveva guadagnato il 6%: e con i ribassi delle ultime sedute ha ridotto i progressi all’1,5% (al 2,8% quelli dello Stoox): Leggenda metropolitana. Quella dell’inflazione era una spiegazione che poteva reggere fino a lunedì scorso, visto che scendevano leBorse, ma salivano anche i rendimenti dei titoli di Stato decennali: fino al 5,20% quelli americani e al 4,07% quelli tedeschi. Ma poichè in settimana s’è avuta la conferma che l’inflazione era salita più di quanto s’aspettavano gli economisti (al 3,5% quella Usa e al 2,3% escludendo energia e alimentari), sarebbe stato logico vedere aumentare anche i rendimenti dei Treasury. I quali sono invece scesi al 5%, parzialmente imitati dai bund (finiti sotto il 4%) indifferenti, ieri, anche ai prezzi alla produzione in Germania, saliti (+6,1%) in aprile con un balzo che è stato il più veloce degli ultimi 24 anni. Una ”nuova” teoria. Negli ultimi giorni s’è diffusa negli Usa una nuova teoria che spiegherebbe la ritrovata forza del mercato obbligazionario. Di nuovo non ha proprio niente, perché in sostanza riprende argomentazioni sentite fino a due mesi fa: non sarebbe tanto l’infazione a preoccupare i mercati, quanto la combinazione di prezzi al consumo che salgono in un’economia che sista raffreddando. La tesi, ripetuta da oltre un anno, secondo la quale l’economia americana finirebbe in recessione o quasi ha contribuito ad appiattire e in seguito a invertire parzialmente la curva dei rendimenti. Quanto ci sia di vero lo s’è visto osservando l’economia Usa crescere invece a ritmi record nel primo trimestre. In ogni caso funziona: nel senso che serve atenere artificialmente bassi i tassi d’interesse di lungo periodo. E sembra aver funzionato anche in settimana, visto che la curva dei rendimenti s’è di nuovo appiattita. Tuttavia sorprende la strumentalità di chi usa tali argomenti: come s’è visto giovedì quando, con il pretesto di maggiori sussidi di disoccupazione, i bond avevano ripreso a correre, nonostante il fenomeno fosse dovuto interamente ai licenziamenti in Porto Rico. E come s’è visto poco dopo, quando il dato sull’attività nell’area di Filadelfia, superiore al previsto e superiore al mese precedente, avrebbe dovuto semmai consigliare prudenza: poiché l’economia non sta affatto rallentando e i prezzi pagati dalle aziende erano in netta crescita. Chi compra i bond. Al di là delle pretestuose teorie, l’unica cosa evidente è che ceè gente che compra i Treasury dilungo periodo, come dimostrano gli elevatissimi scambi di giovedì scorso: 418 miliardi di controvalore che non sivedevano da oltre un anno sul mercato obbligazionario americano. Notando che il dollaro s’è rafforzato rispetto a otto giorni fa, bisogna pensare che i flussi diliquidità verso glil Usa siano stati prevalenti. La tesi contrasterebbe con il comportamento delle banche centrali asiatiche che semmai stanno alleggerendo le posizioni in valuta americana, se non si osservasse che i maggiori investitori al mondo sono gli americani stessi e che probabilmente proprio costoro stanno riportando in casa la liquidità che era stata diversificata all’estero, specie nei Paesi emergenti. Come osserva Morgan Stanley, il denaro gestito da tutti i fondi Usa (17.700 miliardi di $) è sette volte maggiore a quello detenuto dalle banche asiatiche. Inoltre, tra il 2003 e il 2005, i flussi d’investimento all’estero hanno superato i1.100 miliardi: equivalenti all’incremento di tutte le riserve delle banche asiatiche nello stesso periodo. La percezione di qualche rischio in più a livello internazionale può aver consigliato il rimpatrio di parecchi investimenti, il cui primo approfo è nei bond Usa. La bolla delle commodity. Non è un caso che il principale fattore che turbato i mercati finanziari sia stato il crollo nei prezzi delle materia prime (si veda a pagina 34). Se il fenomeno vada interpretato come l’incipiente scoppio di una bolla speculativa è questione abbastanza controversa (gli analisti diHsbc, per esempio, sostengono chenon c’è una bolla delle commodity). Va tuttavia osservato che l’indice composito di tutte le materia prime (Crb) èraddoppiato dall’ottobre del 2001) e per metalli come il rame i prezzi si sono moltiplicati più volte. Dai massimi dell’11 maggio l’indice Crb ha perso il 7%, con una accentuata caduta nella seduta di ieri. probabile che parecchi investitori, fino a qualche giorno fa ”lunghi” (sovrapesati anche utilizzando la leva finanziaria) di commodity, di azioni e bond delle società del settore, delle valute dei Paesi produttori di materia prime, così come delle obbligazioni di quei Paesi, abbiano in questa settimana alleggerito le posizioni. Non a caso si sono viste pesanti flessioni nelle valute di alcuniStati emergenti. Anche questo denaro può essere finito sul mercato obbligazionario Usa e, in parte, su quello europeo. La sofferenza delle Borse. Tutto questo spiega solo in parte la caduta delle Borse. Quantomeno la spiega perché tra i titoli che hanno subito le maggiori perdite si contano proprio quelli dell’industria di base, minerarira e dell’energia (anche il prezzo del petrolio è sceso da 72 a 68,5$ a New York). Ma siccome i cali sui listini sono stati pressoché generalizzati, occorre aggiungere un’altra considerazione: in presenza di una maggiore percezione del rischio, gli investitori alleggeriscono le posizioni azionarie, specie dove si contano le più ricche plusvalenze. E a soffrire di più sono state le medie capitalizzazioni: a Wall Street dove, dai massimi del 9-10 maggio, l’indice Russell 2000 ha perso l’8,1%, contro il -4,4% delle blue chip (S&P100) e, con le debiti proporzioni, anche a Milano dove il Midex (-9,8%) è sceso quasi il doppio del S&PMib (-5,2%). Era nella logica delle cose. Grazie ai basi tassi d’interesse che favorivano l’indebitamento delle aziende, le medie capitalizzazioni hanno finito per esprimere multipli sugli utili decisamente superiori a quelli delle blue chip. Dai prezzi dell’ottobre scorso, l’indice Russel americano aveva accumulato progressi massimi del 26%, contro l’11% dell’S&P100: e il più ampio Stoxx600 era salito del 21.5% contro il 15% dello Stoxx50.