Carlo De Benedetti la Repubblica, 19/12/2001, 19 dicembre 2001
La ”M” gialla si diffonda in Sudan a braccetto con la democrazia, la Repubblica, mercoledì 19 dicembre 2001 La coalizione di forze che si è stretta intorno agli Stati Uniti è, si spera, a un passo dalla cattura di Bin Laden
La ”M” gialla si diffonda in Sudan a braccetto con la democrazia, la Repubblica, mercoledì 19 dicembre 2001 La coalizione di forze che si è stretta intorno agli Stati Uniti è, si spera, a un passo dalla cattura di Bin Laden. Questo chiuderà, almeno così mi auguro, la prima ”guerra mondiale contro il terrore”. Un conflitto sanguinoso, ma necessario. In cui, forse, si potevano usare meno bombe e più servizi segreti. Fino all’11 settembre la storia ci appariva come l’ineluttabile marcia del mondo occidentale verso il trionfo: la supremazia del libero mercato e delle sue istituzioni ci sembrava assolutamente naturale. Qualcuno dopo la caduta del comunismo si era persino spinto a proclamare la fine della storia. Oggi tutti vediamo la grottesca inadeguatezza di quelle previsioni. Ci siamo ritrovati in un mondo insicuro e pieni di paure, stretti tra le forze distruttive del fondamentalismo e la spinta economica aggressiva di una globalizzazione che non siamo in grado di guidare. Ciò che importa è che ora si apra subito un nuovo fronte. Una seconda guerra al terrore che non si combatterà con le armi. Ma da cui dipenderà, davvero, la nostra vittoria. Sarà la battaglia per globalizzare istituzioni civili e democratiche, per dare al mondo più equità, per creare nuovi centri di responsabilità, per ridefinire gli obblighi del capitale globale. Un’offensiva pacifica che non sarà rivolta contro il terrorismo in sé stesso, ma contro le disparità in cui il terrorismo alligna. Una ”missione” per offrire nuove opportunità di partecipazione e sviluppo a coloro che oggi sono esclusi dalla modernità e dal benessere. E in questa sfida siamo tutti chiamati a fare la nostra parte. Ogni cittadino dovrà portare il suo mattone di giustizia e democrazia, dentro gli Stati così come nelle relazioni tra di essi. Ci dovremo trasformare tutti da passivi spettatori in risoluti ”soldati”. Perché questa è una guerra che si vince con la società civile, prima ancora che con i governi e le istituzioni globali. Nell’ultimo decennio del secolo scorso la globalizzazione dei mercati ha creato un’enorme asimmetria: beni, lavoro, valute e informazioni hanno sfondato i confini degli Stati senza portarsi dietro le istituzioni civili e democratiche. Eppure queste hanno storicamente costituito un contesto indispensabile allo sviluppo del libero mercato, hanno costituito quel ”box” istituzionale che ha addomesticato e addolcito il capitalismo assicurandogli un volto umano. Le leggi, i regolamenti, le istituzioni, le relazioni civili hanno attenuato il darvinismo capitalistico, hanno contenuto le sue irregolarità, le sue contraddizioni, la sua tendenza innata al monopolio. Anche un grande liberista, come Luigi Einaudi, ne era convinto. Chi è cresciuto alla sua lezione ricorda bene il ruolo da lui attribuito alle istituzioni, alle regolazioni, alla società civile. In una parola, a quella che oggi definiamo governance. E, come ci ha insegnato di recente Amartya Sen, anche il padre dell’economia di mercato, il grande Adam Smith, mai si è sognato di ignorare l’importanza per il bene della società delle istanze non economiche dell’agire umano. Negli Stati nazionali del XX secolo questo rapporto tra capitalismo e democrazia era diventato tanto solido da essere percepito come naturale. Oggi, invece, nelle praterie del mercato globale la democrazia è rimasta indietro. «Si sente parlare di un nuovo ordine finanziario, ma non una parola sulla gente. Due miliardi di persone vivono con meno di due dollari al giorno. Nel mondo le cose vanno sempre peggio. Dobbiamo fare qualcosa e subito». Queste non sono parole di un fanatico no-global ma di Jim Wolfensohn, numero uno della World Bank. Una di quelle istituzioni che - se sottoposte ad un processo di democratizzazione - potrebbero costituire uno dei mattoni per la costruzione del nuovo ordine mondiale. Solo nelle menti confuse di alcuni nemici della globalizzazione il Sudan o il Mozambico vivrebbero meglio se non ci fosse un McDonald’s ad ogni angolo del mondo. Io credo, anzi, che se la grande M gialla potesse aprire i suoi negozi anche lì, probabilmente quelle popolazioni sarebbero un po’ meno disperate. Ma non c’è dubbio che accanto a quel McDonald’s ci vuole qualcos’altro. Ci vogliono istituzioni, ci vogliono organizzazioni non governative, ci vuole cultura politica, università, società civile. In una parola ci vuole democrazia. Altrimenti, in due terzi del mondo si continuerà a soffrire la fame e l’altro terzo continuerà ad essere percepito come l’affamatore. Dobbiamo avere la capacità di globalizzare la democrazia così come abbiamo saputo fare per l’economia. Dopo l’11 settembre, la global governance deve diventare più che mai il nostro mandato. Come si fa? chiaro che qui nessuno ha una risposta preconfezionata. E tanto meno io che di mestiere faccio l’imprenditore. Ma siccome proprio da imprenditore ho toccato con mano quanto una globalizzazione tutta affidata alle forze dell’economia sia fallimentare, quanto sia difficile lavorare sui mercati internazionali nell’anarchia delle forze di mercato, qualche considerazione mi sento di farla. Io dico che oggi c’è bisogno di un sistema a rete, fatto di istituzioni globali e locali e di più privato diretto al sociale. Lo sforzo che stanno facendo le nazioni europee, pur tra mille stop e il continuo riaffiorare degli egoismi nazionali, per costruire un’Unione più compatta ed omogenea è un esempio di ciò che serve. E a questo proposito non posso non fare i migliori auguri agli amici Valery Giscard d’Estaing e Giuliano Amato che si accingono ad opera davvero storica. Così come servono - adeguatamente riformate - le grandi istituzioni di Bretton Woods, il Fmi e la World Bank, e l’Onu. Sul fronte opposto, poi, c’è bisogno delle Regioni e delle città metropolitane, perché non ci sarà global governance senza local. E anche gli Stati nazionali dovranno continuare a svolgere un ruolo importante. Ma la battaglia, ed è questo il punto decisivo, non si vincerà se non passerà attraverso organizzazioni informali e società civile. Quest’ultima non è solo lo spazio dove votiamo e compriamo, ma è dove organizzazioni non governative promuovono il commercio dei prodotti del terzo mondo, dove le chiese e le sinagoghe possono trovare un letto per i senzatetto, dove una fondazione garantisce i fondi alla ricerca contro l’Aids. Lo spazio civico non appartiene né allo Stato burocratico né al consumo privato, è cioè pubblico senza essere coercitivo ed è privato che agisce su un terreno comune. una terza via alla globalizzazione che, collegando diritti e responsabilità di ciascuno, ci restituisce il pieno controllo del governo e dei mercati. Perciò io dico che nella nuova democrazia globale del XXI secolo lo spazio civico potrà essere ciò che gli Stati nazionali sono stati per la democrazia del XX. Sarà che sono stato tra i primi in Italia a cogliere le opportunità che offriva Internet, ma è proprio alla rete che invito a guardare quando si ragiona di nuovo ordine mondiale. Quando tanti anni fa spiegavo ai miei collaboratori cosa era il Www, vedevo facce stupite: sembrava un’assurdità un sistema globale senza un centro, senza un vertice, senza una cabina di regia. Oggi tutti vediamo che Internet funziona meravigliosamente proprio perché ha miriadi di centri e nessuno. Lo stesso può avvenire con la democrazia. quello che gli esperti chiamano un multilevel system of government: un sistema a rete che si articola intorno ad istituzioni nuove e vecchie, locali e globali, formali e informali. In un mio viaggio recente negli Usa ho avuto il piacere di conoscere Benjamin Barber, ex consigliere di Clinton e autore qualche hanno fa di un saggio (Jihad Vs. McWorld) molto letto negli Usa. Lui giustamente ha osservato come la lotta tra la Jihad e l’Occidente non è frutto di un clash of civilizations, di uno scontro tra il «west and the rest», ma l’espressione dialettica di tensioni che sorgono all’interno di una singola civiltà globale. Il terrorismo, in sostanza, non è che l’altra faccia, la più tragica, di una globalizzazione squilibrata. Perciò non è possibile chiamarsi fuori da questa lotta per la democrazia. L’alternativa, semplicemente, non esiste. Nel nostro mondo globale c’è una così alta integrazione che la scelta tra una sicura indipendenza, che spesso riemerge nell’isolazionismo americano, e una difficile interdipendenza non ci è più concessa. L’unica scelta che possiamo fare è quella tra un’interdipendenza utile, democratica e legittima e un’interdipendenza basata sul radicalismo, l’anarchia e il terrore. Perciò io credo con Barber che per costruire un nuovo mondo serve una nuova ”Dichiarazione di interdipendenza”, una dichiarazione che riconosca l’interdipendenza della razza umana, che non può più sopravvivere frammentata, comunque se ne chiamino i pezzi, nazioni, tribù, popoli o mercati. Il messaggio dei terroristi è: «I vostri figli vogliono vivere, i nostri sono pronti a morire». La nostra risposta deve essere: «Creeremo un mondo in cui la seduzione della morte non avrà possibilità di vittoria, perché la bellezza della vita sarà accessibile a tutti». Carlo De Benedetti