Stefano Lepri La Stampa 17/12/2001, 17 dicembre 2001
A Città del Messico non si sa a chi far pagare la bolletta della luce, La Stampa lunedì 17 dicembre 2001 Funziona? Sì che funziona
A Città del Messico non si sa a chi far pagare la bolletta della luce, La Stampa lunedì 17 dicembre 2001 Funziona? Sì che funziona. Il mio paese, il Perù, contribuiva per il 70 per cento alla produzione mondiale di coca; ora è sceso al 24 per cento. E sa perché? Abbiamo capito che i contadini preferivano coltivare la pianta della coca, che cresce in soli cinque mesi, perché non avevano credito sufficiente per dedicarsi a colture che sono più redditizie, ma hanno un ciclo più lungo, piante che magari hanno bisogno di 5 anni per fruttificare appieno. Quando gli abbiamo dato dei titoli di proprietà della loro terra, in base ai quali potevano ottenere credito, si sono disinteressati della coca». Hernando De Soto, 60 anni, già governatore della Banca centrale del Perù, è l’economista oggi sulla cresta dell’onda nei paesi in via di sviluppo, che si contendono le consulenze del suo ”Institute for Liberty and Democracy”. «Uomo di una sola idea, ma persuasiva e di grande forza», come ha detto di lui lo storico harvardiano Richard Pipes, De Soto sostiene che ciò che manca ai paesi poveri per diventare ricchi è lo Stato di diritto: prima di tutto validi e commerciabili titoli di proprietà immobiliare e fondiaria, da usare come primo collaterale del credito, e poi sistemi di leggi capaci di rendere servizi efficienti a coloro che intraprendono, piuttosto che ostacolarli. Venuto in Italia per il convegno ”Le radici del futuro” organizzato dalla Banca Nazionale del lavoro, vi tornerà presto per discutere del suo libro Il mistero del capitale appena uscito da noi dopo essere già apparso in cinese, russo, portoghese e olandese oltre che, naturalmente, in inglese e spagnolo. «In Perù il mio libro si è venduto molto, molto di più di un romanzo di Mario Vargas Llosa - si vanta - perché alla gente interessano i fatti concreti». In Italia potremmo forse dire, professor De Soto, che lei ha scoperto l’economia sommersa. «No, la vostra economia sommersa - conosco bene questo termine - è essenzialmente economia che non risulta al Fisco. Il fenomeno che io descrivo nel Terzo Mondo è molto di più: non risulta la proprietà della casa o del terreno, non c’è nemmeno l’indirizzo. Come faccio ad avere rapporti commerciali con un tizio che non si sa che cosa possieda e forse nemmeno dove abita? tutto fuori dalla legalità. A Città del Messico, metà delle bollette della luce non vengono pagate perché non si sa a chi farle pagare. In Egitto ho scoperto che circa il 90 per cento delle case e l’80 per cento dei beni delle imprese non risulta da nessuna parte. Questo che non è registrato è un patrimonio enorme, una trentina di volte il valore della Borsa del Cairo, 55 volte tutti gli investimenti dall’estero effettuati in Egitto in tutti i tempi, dal Canale di Suez a oggi». Non è inutilizzato: la gente vive in quelle case, lavora in quelle imprese... « inerte. morto. Non può essere usato come capitale. Occorre poter ipotecare una casa per ottenere credito, occorre poter registrare la proprietà di una azienda per raccogliere finanziamenti». Una casa abusiva non si può vendere. questo che intende? «Non si può vendere se non a qualcuno che ti conosce bene: ha un mercato molto più piccolo, ristretto a una piccola comunità. Poi ci sono gli altri ostacoli. All’inizio delle mie ricerche, ho scoperto che per mettere su, a norma di legge, una minuscola impresa dell’abbigliamento - due macchine da cucire, un solo dipendente - alla periferia di Lima, occorreva perdere quasi un anno in pratiche e spendere l’equivalente di 1.200 dollari Usa, ossia trenta volte il salario medio mensile. C’era da meravigliarsi che quasi tutta l’economia del Paese funzionasse in nero? Applicando i nostri rimedi, in Perù sono emerse 300.000 imprese». Ci dica la soluzione, potrebbe interessare anche noi. Più volte in Italia abbiamo tentato di semplificare le leggi, ma molto spesso la burocrazia riesce di nuovo a complicare tutto. «Beh, la burocrazia non si può facilmente riformare. Si esautora quella vecchia, mettendola da parte, e le cose che devono funzionare si affidano a una branca nuova». Difficile da farsi in Europa. Ma lei il Terzo Mondo lo ha girato parecchio. Dovunque ha trovato conferme alle sue ipotesi? Oltre che nel mio paese ho lavorato o lavoro per i governi delle Filippine in Asia, dell’Egitto nel mondo islamico, di Haiti nell’America caraibica che è uno dei paesi più poveri del mondo, del Messico; poi in Africa, nel Ghana, e anche in Russia. Pensi che in Egitto ottenere i permessi per costruire un’abitazione su un terreno agricolo comporta dai 6 agli 11 anni di litigi con gli uffici pubblici. Ho chiesto a un piccolo imprenditore egiziano che cosa pensava del sistema del bakshish...». Della bustarella, diremmo qua. «E mi ha detto che andava benissimo, perché era prevedibile. Sapeva quanto doveva pagare e a chi per ottenere un servizio. Tutti fanno i loro conti. Se la legalità non offre un servizio competitivo, la gente resta fuori dalla legalità. Il problema è che questo limita la crescita economica». La cultura musulmana influisce in qualche modo? «Nemmeno un po’. Ho parlato con tanta gente in Egitto, durante il lavoro affidatomi dal presidente Mubarak, e nessuno mai ha invocato la sharia, la legge islamica. Non ho trovato nessuna ostilità né al profitto né alla proprietà privata individuale né al credito. E guardi che io faccio ogni volta indagini sul campo, mi scelgo - metto molto tempo a sceglierli - collaboratori capaci di entrare in contatto con la gente minuta, con tutti». Di chi è la colpa? «Dei sistemi politici. Si producono apparati legislativi che non hanno nessun contatto con le esigenze della gente. Ci vuole un dialogo democratico. Ci vogliono meccanismi di feedback: per capire quali sono le conseguenze concrete di una legge quando la si introduce. E i riformatori devono scendere tra i poveri, assumere il loro punto di vista. Guardi che io non do alcun giudizio morale sul capitalismo; cerco di usarlo, perché è l’unico sistema che si è dimostrato capace di produrre ricchezza. Ma dalla caduta del Muro di Berlino in poi l’Occidente ha perso una grande occasione. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo? I vincenti restano sempre gli stessi, circa 25 paesi con circa un miliardo di abitanti. Nel resto del pianeta si sono globalizzate solo le élites, diciamo un dieci per cento della popolazione, noi che ci vestiamo come voi e abbiamo la stessa cultura e sappiamo l’inglese; gli altri, cinque miliardi di persone, sono esclusi». Che cos’è che non ha funzionato? «Oggi, l’Occidente rischia di convincersi - è un’idea molto più diffusa di quanto non sembri - che nei paesi poveri ci sono limiti culturali, resistenze profonde al capitalismo o alla modernità. Che non siano capaci, insomma. Certe volte si accusa la cultura islamica, altre volte altri fattori. Si lamenta che manca l’etica protestante o qualcosa del genere. Ma non è affatto così. Tutto il Terzo Mondo rigurgita di capacità imprenditoriali; e di abilità nel saper usare le tecnologie. Ma la gente si trova davanti degli ostacoli che vanno rimossi». E che, lei sostiene, non erano nemmeno stati visti. «Dopo il 1989, la ricetta del Washington consensus, ossia della dottrina prevalente al Fondo monetario e alla Banca mondiale, ai paesi in via si sviluppo è stata: stabilizzate il cambio, portate i bilanci in pareggio e privatizzate. Ma in certi casi non si sapeva nemmeno che cosa privatizzare! Le porto l’esempio della società telefonica peruviana. Per privatizzarla, l’abbiamo innanzitutto quotata in Borsa, dove è stata valutata 53 milioni di dollari. Poi ci siamo rivolti a investitori esteri, ma nessuno era interessato. Perché? Perché i titoli di proprietà che volevamo vendere non gli davano garanzie. Allora abbiamo modificato tutto il sistema legale. Ci abbiamo impiegato tre anni, ma alla fine abbiamo venduto la società dei telefoni per 2 miliardi di dollari, 37 volte la quotazione iniziale». I paesi usciti dal comunismo sono stati spinti a privatizzare tutto e subito senza curarsi d’altro, per accorgersi poi che, senza uno Stato di diritto, il capitalismo non può funzionare bene... «Sì, oggi un numero sempre maggiore di economisti si concentra sull’importanza delle istituzioni. un cambiamento che si è visto anche nell’attribuzione dei premi Nobel, da Buchanan in poi. L’Occidente non si è accorto di quanto importante fosse tutto questo perché lo dava per scontato, come l’aria che respiriamo. Ha presente la mela che ho mostrato parlando al convegno della Bnl? Ciò che è importante nella mela, per sapere se l’ho rubata o se è mia, non è contenuto nella mela stessa. C’è un sistema di rappresentazioni esterno agli oggetti alla base della formazione di capitale. Se non capiamo che questo è il punto, il capitalismo resterà inaccessibile ai poveri del mondo». Mettere in condizione i poveri di sfruttare al meglio le risorse che già possiedono. Portare il capitalismo in mezzo alle masse del Terzo Mondo: è questo che propone? «Ripeto, sul capitalismo non dò un giudizio di valore. Se si parla di valori sono per la libertà, la compassione per i poveri, l’eguaglianza di opportunità. Realizzando dal basso, da queste fondamenta, uno Stato di diritto diamo ai poveri la possibilità di esercitare iniziativa imprenditoriale». Le sue idee hanno raccolto consenso da parti diverse, dagli ultraliberisti come dai socialdemocratici; negli Stati Uniti sono state ascoltate dalla Casa Bianca di Bill Clinton e ora da quella di George Bush. Ma i critici dicono che lei si focalizza solo su un aspetto di un problema molto complesso. Un articolo pubblicato sul numero in edicola di ”Global” la accusa di dare l’illusione che questa dei diritti di proprietà sia una bacchetta magica buona per tutti gli usi. «Mi pare che all’autrice di quell’articolo importasse soprattutto sostenere che è una forzatura imporre la proprietà individuale a culture dove per tradizione esiste una proprietà collettiva. Ma esiste davvero questo comunitarismo originario? Sono cose che si possono scrivere stando seduti in un ufficio a Manhattan. Io, girando per le Ande non l’ho mai trovato. Casomai ho scoperto che erano stati i conquistatori spagnoli a stabilire che un villaggio o una tribù erano rappresentati da una persona sola, perché a loro semplificava le cose». Ma non le pare di concentrarsi troppo sui diritti di proprietà? «Sì, che non bisogna limitarsi solo a questo aspetto lo obiettava, per esempio, la recensione al mio libro che ho trovato più interessante, quella di Jagdish Bhagwati...». Un grande economista originario dell’India, che i problemi dei paesi poveri li conosce bene. «Però che senso ha? Ci saranno altri aspetti; intanto adoperiamoci per risolvere questo. Mi pare che i dati e le cifre che ho raccolto nel mio libro ne dimostrino tutta l’importanza». Stefano Lepri