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 2001  dicembre 21 Venerdì calendario

A chi importa di Buenos Aires?, Corriere della Sera, venerdì 21 dicembre 2001 Che bello, l’Argentina può andare a fondo senza che i mercati finanziari ne soffrano più di tanto

A chi importa di Buenos Aires?, Corriere della Sera, venerdì 21 dicembre 2001 Che bello, l’Argentina può andare a fondo senza che i mercati finanziari ne soffrano più di tanto. Lo stato d’assedio, i morti e i feriti, la Plaza de Mayo trasformata in campo di battaglia, i supermercati saccheggiati? I clintoniani della prima ora risponderebbero che «è l’economia, stupido». Quel che conta, secondo certe analisi che sfiorano addirittura il sollievo, è che i Paesi emergenti non siano contagiati dal crollo, che il Brasile se la cavi, che il pessimismo del Fondo monetario risulti giusto. Oltretutto George Bush fa sapere di essere preoccupato, che cosa si può pretendere di più? L’Argentina, certo, era da tempo un malato terminale. La disoccupazione sfiorava il 20 per cento, il presidente dimissionario de la Rùa non riusciva ad ispirare fiducia, le manovre emergenziali del superministro Domingo Cavallo annunciavano alla classe media un futuro di miseria, mancavano le risorse per la totale dollarizzazione dell’economia e la svalutazione del peso faceva temere una incontrollabile esplosione sociale, un indebitamento di 132 miliardi di dollari prospettava il trauma dell’insolvenza. Tutto drammaticamente chiaro. Eppure in queste ore non può bastare la presa d’atto ”tecnica” (e cinica) di una catastrofe prevista: perché i tumulti argentini rappresentano un brutale promemoria in un mondo ipnotizzato dalle sue guerre, e anche perché qualcuno dovrebbe chiedersi come mai la classe dirigente di Buenos Aires, con tutte le sue pesanti responsabilità, sia stata abbandonata a se stessa. Dopo i grandi dibattiti sul ”pensiero unico”, seguito secondo alcuni alla caduta del muro di Berlino, gli attentati dell’11 settembre ci avevano abituati alla ”priorità unica”: punire i colpevoli e cercare bin Laden, tenere d’occhio le tragedie del Medio Oriente, cavalcare i nuovi equilibri internazionali e garantire la nostra sicurezza minacciata. Su tutto continuava a pesare la strisciante recessione dei Paesi ricchi, ma i buchi neri della povertà e le congiunture che ne promettevano l’estensione erano passati, se non nel dimenticatoio, almeno in secondo piano. Ora invece l’Argentina ci riporta con i piedi per terra, ci investe con l’impatto di una crisi diversa che può anch’essa, come si è visto, far scorrere il sangue. è un richiamo politico e non soltanto economico, dunque, quello che ci giunge dalla terra che ha accolto milioni di nostri connazionali (titolari proprio da ieri, per ironia della sorte, del diritto di voto in Italia). Tanto più che è stata la politica della globalizzazione nella sua versione più aggiornata, e più discutibile, a svolgere una parte di rilievo negli eventi argentini di questi giorni. Quando ormai si era capito che Domingo Cavallo non sarebbe riuscito a salvare di nuovo la patria come aveva fatto ai tempi di Menem, il segnale più atteso è giunto dal Brasile: non c’era da temere una reazione a catena nei Paesi emergenti, il dissesto argentino poteva cuocere nel suo brodo senza provocare un’onda d’urto mondiale, e anzi, secondo il parere di molti economisti, la svalutazione andava resa ufficiale al più presto per poter lavorare alla ripresa senza altre perdite di tempo. Rifiutandosi di elargire a Buenos Aires un cruciale versamento di 1,3 miliardi di dollari, il Fondo monetario (che pure aveva in precedenza molto aiutato l’Argentina) ha preso per buona la diagnosi brasiliana, e ha nel contempo recepito la filosofia dell’amministrazione Bush secondo cui il Fondo deve prevenire le crisi e smettere di essere la Croce Rossa finanziaria delle crisi già irremediabilmente scoppiate. è così che Cavallo si è scoperto solo, ed è così che l’intero sistema argentino è rapidamente arrivato sull’orlo di un baratro la cui profondità è ancora oggi imprevedibile checché ne dicano i teorici del tanto peggio tanto meglio. La speranza è che ora l’Argentina sappia riformarsi limitando il ricorso alle maniere forti. Ma è anche che George Bush si preoccupi davvero, aggiungendo questa alle sue altre e diverse priorità. Franco Venturini