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 2001  dicembre 21 Venerdì calendario

L’Argentina sembra proprio l’Italia, giusto un po’ peggio, La Stampa, venerdì 21 dicembre 2001 Con le dovute, proverbiali e pregiudiziali differenze: tutto il mondo è l’Italia, ma l’Argentina lo è ancora di più

L’Argentina sembra proprio l’Italia, giusto un po’ peggio, La Stampa, venerdì 21 dicembre 2001 Con le dovute, proverbiali e pregiudiziali differenze: tutto il mondo è l’Italia, ma l’Argentina lo è ancora di più. Cadaveri per le strade e rimpasto di governo, immancabile pure laggiù. Inflazione con mini-assegni e lancio di uova: «Ma le uova - disse un giorno Andreotti, sfiorato - fanno bene alla pelle». Preti agitatissimi nei cortei e prestiti del Fondo monetario, tipo quello che a un certo punto andò a implorare a Washington il ministro del Tesoro Stammati. Per dare il senso della gravità della situazione, da Buenos Aires, si soffermano sulla più inaudita delle circostanze: il rinvio di un’importante partita di pallone. E anche qui il calcio misura il respiro, i toni, i ritmi, la routine della vita pubblica. E poi le facce che si vedono in tv, i cognomi che si leggono sui giornali, il colore delle case: Italia, o quasi... E sarà una suggestione, certo; un’illusione, un miraggio, un sogno opaco e confuso, ma ricorrente. E allora pare di scorgere un po’ di noi, nella crisi argentina, un pezzetto di vissuto italiano degli Anni Cinquanta, e Sessanta, e Settanta, soprattutto, e anche dopo. Un Paese sfuggito di mano. Messo molto peggio del nostro quando mezzo Parlamento era sotto accusa, e facevano saltare per aria Falcone e Borsellino, e un brutto giorno - che nessuno ha mai dimenticato - il governo entrò nei conti correnti degli italiani e si prese quel che aveva deciso di prendere. E zitti e mosca. Però l’Argentina è peggio. E in questo suo essere peggio, a parte le sconfitte calcistiche che ha impartito agli azzurri, sta la virtù tranquillizzante dell’Argentina, la sua perfezione consolatoria. Guai, per l’Italia, se non ci fosse l’Argentina: lontana e vicina ad un tempo, e anche per questo esemplare brutta copia, compiuto aggravamento dei difettucci nostri. Marciapiedi rotti, eccesso di brillantina, saccheggi di supermarket, privatizzazioni dubbie e tortuose, presidenti che come Menem denunciano di essere stati punti da insetti per farsi un bel lifting, traffico d’armi, tangenti - anche se in fondo, pure da noi... Naturalmente non esistono parametri che possano misurare il grado di somiglianza tra i Paesi o le convenienti diversità dei popoli. Vero è che la metà degli abitanti di quell’immenso Paese al di là dell’Atlantico hanno sangue italiano. Però è ancora più vero quel che diceva Jorge Luis Borges dei suoi connazionali: gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e credono di essere inglesi. A semplificare le cose si potrebbe aggiungere che Buenos Aires è anche molto Parigi. Ma la questione, dopo tutto, riguarda soprattutto gli italiani, per i quali avere a disposizione uno specchio deformato è certamente assai comodo. A guardarlo ci si sente infatti più belli, più bravi, più efficienti, figurarsi. La superiorità con cui gli italiani guardano all’Argentina appare a tratti rigenerante; ma se ci si pensa un po’ questa pretesa supremazia, onestamente, quest’aria di sufficienza è cieca, o distratta, o comunque di memoria corta. Perché quel che ora accade laggiù, di norma è accaduto anche qui, seppure ai nostri nonni, ai nostri padri, ai nostri fratelli maggiori, ma pure a noi stessi, qualche anno fa. Solo che ce ne siamo dimenticati. Per vergogna, o per spirito costruttivo. Basti pensare alle ferite e alle vendette della guerra civile. Alla fatica, anche da noi, di metterci un punto, possibilmente a capo. Poi gli assalti ai forni, la borsanera, il contrabbando di merci e i magheggi finanziari. Napoli, Palermo e Roma non dovevano fare una bella impressione ai soldati che vennero a liberarle. Un’unica catena di fantasia e di miseria, dopo tutto, tiene insieme al di là del tempo e dello spazio sciuscià e arbolitos (’alberelli”, venditori clandestini di dollari), le finanziarie cuevas e i ”pescicani” del dopoguerra italiano. Troppi guai pare di riconoscere in qualche modo come già ben sperimentati: la fuga dei capitali, il puzzo acre dei lacrimogeni, il crack delle banche, gli scioperi generali a getto continuo, i pacchetti di restrizioni recanti la parola ”austerità”, le bocciature di Moody’s. E ancora: instabilità qui e lì; dissipazione di pubbliche risorse idem; disoccupati in aumento; corruzione non ne parliamo; nessuno è mai responsabile; la classe politica meno che meno; i militari si fanno sentire. Sul tutto una comune e a suo modo fantastica disponibilità a governare il caos attraverso espedienti, trucchetti contabili, svalutazioni surrettizie, sussidi vagamente truffaldini, proliferazione di nuovi titoli di Stato che di colpo sostituiscono i vecchi, mentre di tanto in tanto, quasi a scadenza, prende e riprende corpo l’eventualità di un congelamento dei depositi bancari. Certo, in Argentina è tutto più intenso, più vero, più continuo. E tuttavia l’Argentina non ha mai avuto un’Europa a cui aggrapparsi; e senza Europa - vale la pena di farci un pensierino a dieci giorni dal varo della moneta unica - l’Italia guarderebbe oggi a quel che succede a Buenos Aires, a Rosario, a Cordoba con qualche sensata preoccupazione in più. Anche in questo, purtroppo, vale la logica dello specchio deformato, della brutta copia, della triste parodia comparativa che solleva, rincuora, tranquillizza. Basta ascoltare certi discorsi a Montecitorio e Palazzo Madama per rendersene conto. L’Argentina funziona così, anche a livello lessicale, come deprecabile ”altrove”. Inflazione ”argentina”, spesa pubblica ”all’argentina”, Di Pietro «ci porta in Argentina», come disse il senatore di Forza Italia Contestabile. Raramente capita che qualcuno menzioni l’Argentina con qualche affetto. Solo Ciampi, durante il suo viaggio, ha avuto il cuore di ricordare che da piccolo, quando pensava agli italiani all’estero, «pensavo solo all’Argentina». E ha ricordato, il presidente, anche alcuni giocatori ”oriundi” del Livorno: Uslenghi e Ferrara, più l’uruguayano Garaffa. Altrimenti è sempre un richiamo ansiogeno, minaccioso. L’ultima volta, pochi mesi fa, dopo Genova, i pestaggi alla Diaz e a Bolzaneto. D’Alema, per la verità, aveva parlato solo del Cile, ma il vicepresidente del Consiglio Fini aveva risposto: «Non c’è alcuna deriva dittatoriale cilena né - aveva aggiunto - argentina». Senza dimenticare il presidenzialismo deteriore, anche’esso detto ovviamente ”argentino”: vedi anche alla voce ”peronismo”, con le varie varianti in uso, ”peronismo alla vaccinara”, ”alla molisana”, eccetera. Di Perón, in Italia, si parla in genere con una assiduità pari solo all’ignoranza che si ha della storia sua e delle sue mogli, Evita e Isabelita. E dire che la salma della prima, la signora dei descamisados, ebbe anche qualche vicissitudine in Italia, nel senso che la Santa Sede ne curò con accortezza diplomatica la gestione logistica e il sospirato trasbordo in patria. Il nunzio apostolico a Buenos Aires, d’altra parte, pare che giocasse a tennis con qualche sanguinario generalissimo della giunta militare. E le mamme di Plaza de Mayo, che erano così amiche di Pertini da sistemarsi quasi stabilmente al Quirinale, non lo hanno mai dimenticato. Lui, Perón, era un tipo che parve ad Andreotti assai curioso, e non solo perché teneva nel salotto di casa sua un cappello da alpino; o perché, trovatosi a colloquio con il ministro italiano, non trovò pace fino a quando non gli vennero in testa le parole e la musica di una canzone che avrebbe dovuto idealmente collegare i due popoli. La canzone, riferisce Andreotti in Visti da vicino (Rizzoli, 1982), era: «Osteria numero uno, paraponzi ponzi po»; e Perón cominciò a cantarla. Ma il vero motivo di interesse, più che in Perón, era in un signore italiano dai capelli bianchi, verso il quale il presidente argentino aveva un atteggiamento assai deferente. Ad Andreotti parve che somigliasse al direttore dello stabilimento Permaflex di Frosinone, un certo Licio Gelli. Era lui, in realtà, imbarazzante anello di congiunzione tra i due mondi. Fece un sacco di affari, qui e laggiù. Tentò di smerciare anche petrolio e carne. Finì tutto in fumo. Filippo Ceccarelli