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 2006  maggio 18 Giovedì calendario

Una moneta chiamata "prestigio". Il Sole 24 Ore 18 maggio 2006. "And the winner is...": la cerimonia dell’assegnazione degli Oscar - con la frase divenuta talmente proverbiale da essere prestata alla pubblicità - è essa stessa uno show

Una moneta chiamata "prestigio". Il Sole 24 Ore 18 maggio 2006. "And the winner is...": la cerimonia dell’assegnazione degli Oscar - con la frase divenuta talmente proverbiale da essere prestata alla pubblicità - è essa stessa uno show. Così accadrà per i Palmarès di Cannes, attesi per domenica 28. Tappeti rossi, smoking, belle donne, cene di gala, centinaia di giornalisti e flash dei fotografi: forse è questa la più appariscente trasformazione (il sussiegoso protocollo del Nobel a Stoccolma è, televisivamente parlando, molto meno affascinante...) dell’industria culturale. La spettacolarizzazione del premio, che diventa a sua volta un "evento", è caratteristiche tra le più emblematiche della cosiddetta "economia del prestigio". Più premi per tutti. Un fenomeno analizzato in profondità da un recente studio americano (dal titolo omonimo), opera del ricercatore di Harvard James English. Il quale ha sondato i meccanismi di potere culturale e sociale che sottostanno all’assegnazione dei premi. E al loro compito: produrre prestigio, valore, riconoscibilità e mettere in moto - anche - meccanismi prettamente economici. L’"industria dei premi", infatti, funziona a pieno ritmo. Negli ultimi 50 anni (si vedano i grafici in questa pagina) il numero di riconoscimenti è salito in maniera esponenziale. Solo negli Stati Uniti i premi letterari di una certa fama e consistenza sono passati dai 21 nel 1929 agli attuali 1.100; quelli relativi al cinema fanno registrare - grazie soprattutto alla invenzione di festival ad hoc - tassi di crescita ancora più eclatanti. Oggi si contano circa 700 festival all’anno e i premi sono saliti a 9.000: due premi per ogni film prodotto. Valori in gioco. Perché questo dilagare? A chi conviene? Non è certo determinante l’importo monetario del singolo premio anche se vero che un premio si crea un autonomo valore reputazionale a partire dalla consistenza della dotazione economica e, quindi, da chi può premiare: più è appetibile meno dovrebbe essere facile da conquistare. Gli effetti di lunga durata di un premio vanno ben oltre la circostanza contingente e possono creare credibilità nel tempo. Per chi li vince, ma anche per chi li organizza. Qualche esempio: il Nobel, primo e modello dei futuri premi organizzati, distribuisce circa 1 milione di euro a ciascun premiato ma non è certo ambito per i soldi: permette di entrare in un club ristretto (per esempio un canone letterario); il Booker Prize, maggior premio letterario britannico, assegna 50mila sterline ma fa gioco soprattutto al Man Group, lo sponsor, che - con un budget ridotto - finisce sulle pagine dei giornali di tutto il mondo; il Pulitzer offre a ciascuna delle sue 21 categorie 10mila dollari ma costituisce, più che altro, un formidabile viatico per la carriera di un giornalista e per la reputazione del giornale che lo pubblica. Il premio, nella società globalizzata, è moneta altamente spendibile a livello di notorietà se non proprio di prestigio intellettuale. Tanto che non è infrequente che i giurati, per smarcarsi da possibili accuse, finiscano per prediligere opere ostiche al gusto del pubblico o prodotte da artisti fuori dalle major editoriali e cinematografiche. Il rifiuto che Sartre oppose nel 1964 al Nobel oggi forse non sarebbe pensabile: le barriere ideologiche tra arte e mercato sono troppo sottili per opporvisi così grossolanamente. E se - aspetto da tener ben presente - la "contestazione " e lo "scandalo" sono coerenti nella strategia generale del premio per farsi conoscere, dalla vittoria o dalla polemica sono in molti a guadagnare. Nel 1987 il National Book Award non fu vinto da Toni Morrison, finalista con il romanzo "Beloved" (appena giudicato dal "New York Times" il più importante romanzo americano degli ultimi 25 anni). Ebbene: qualche tempo dopo, su "Time" apparve uno scritto ferocemente polemico che rivendicava il "diritto di vittoria" della scrittrice afroamericana, già acclamata all’estero e poco amata in patria. Qualche mese dopo, la Morrison si aggiudicò il Pulitzer, nel 1993 arrivò il Nobel. Il suo fu un caso, e nemmeno il più eclatante, di Nobel "politicamente corretto" (andava a una donna, e di colore), fatta salva la sua indiscutibile statura letteraria. Il vincitore pigliatutto. L’altro fenomeno rilevante è la relazione dei premi con il mercato di riferimento. Fino agli anni 60 i romanzi vincitori del National Book Award o del Pulitzer erano anche campioni di vendite. Una tendenza drammaticamente smentita nei decenni successivi. I criteri delle giurie divergono via via sempre più da quelle dei lettori: dal 60 in poi, solo in due casi un libro vincitore è finito nella classifica dei bestseller. Oggi le possibilità che un autore insignito del Pulitzer per la narrativa finisca in classifica sono meno del 5%. Ma, a certe condizioni, accade anche il contrario. Paradossalmente, il mercato globalizzato fa sì che, oltre una certa soglia di notorietà e successo, chi sfonda sul mercato fa man bassa di premi (quasi mai viceversa). Un effetto della loro proliferazione è la concentrazione nelle mani di pochissimi vincitori - opera o autore - di una selva di successi internazionali. E questo non sempre è direttamente connesso alla (pretesa) qualità artistica. Michael Jackson in 30 anni di carriera ha vinto circa 240 premi, Steven Spielberg tra il 1970 e il 2004 ne ha sommati 90 (John Ford ne vinse 27, Hitchcock 21 e 16 Charlie Chaplin), il film "Il signore degli anelli 3 (Il ritorno del re)" ha vinto 79 premi internazionali, battendo persino "Titanic" (78) e distanziando in maniera imparagonabile i 10 premi di "Via col vento" (1939) o i 3 di "Casablanca" (1942). Non ci sono dubbi su quale film sia nella storia del cinema. Nati con l’idea di certificare lo standard qualitativo, i premi e i loro meccanismi di funzionamento (selezioni, giurie, sponsor, pubblicità, scandali...) sono oggi, piuttosto, un credibile termometro per giudicare, a nostra volta, come si sia trasformata la cosiddetta "industria dei contenuti". Il capitale culturale a disposizione di una società non ha un’unità di misura certa. E questo non è detto che sia un male. Stefano Salis