Macchina del tempo n. 5 maggio 2006, 5 maggio 2006
Viaggio a Varanasi, la città santa sul Gange. Dicono che passeggiare la sera lungo il molo dei defunti sia pericoloso
Viaggio a Varanasi, la città santa sul Gange. Dicono che passeggiare la sera lungo il molo dei defunti sia pericoloso. L’oscurità è punteggiata di fuochi. Alcune fiammelle se le porta via il Gange: sono luci di buon augurio, accese dentro piccole ceste di fiori di loto, e affidate alla corrente. Ormai trasportano per lo più desideri e speranze di turisti di passaggio. Le fiamme della tradizione vera bruciano più verso le sponde, alitando in cielo fumi d’incenso, sandalo e carne bruciata: sono le pire che ardono incessantemente lungo i ghat, i moli in riva al Gange dove gli indù cremano i loro morti. Per questo alcuni indiani conoscono Varanasi solo con il soprannome di Maha Shmashan Puri, che vuol dire ”Il fuoco che non si ferma mai”. Questa è la città santa dell’induismo: un luogo propizio per morire perché, secondo antiche credenze, esalando qui l’ultimo respiro, ci si sottrae al ciclo delle reincarnazioni, e si accede direttamente al paradiso di Shiva, che si ritiene sia sul Monte Kailasa. Varanasi è un luogo denso di misticismo, dove tutto sembra possibile. Ad esempio, che una famiglia collocata al gradino più basso della gerarchia sociale indiana, i cosiddetti ”intoccabili”, guadagni tanto denaro da divenire la famiglia più ricca e influente della città. Il loro nome è Dom, ma loro si fanno chiamare Dom Raja, poiché si considerano ”i re del regno dei morti” (in indiano ”raja” significa ”re”). La loro casa è la più bella e imponente del lungofiume. I Dom custodiscono il cosiddetto ”fuoco sacro”, una fiamma che arde giorno e notte da tempo immemorabile all’interno di un tempio dedicato a Shiva. Nel complesso cerimoniale della cremazione, il fuoco sacro, con cui la pira funebre viene accesa al termine del rito, è considerato un elemento fondamentale. E per avervi accesso, le famiglie dei defunti fanno offerte anche cospicue. Matru Dom è uno dei capifamiglia. In città lo conoscono tutti, ma non è facile arrivare a lui. Accetta di parlarmi solo grazie all’aiuto di un intermediario. sera quando arrivo all’Harishchandra Ghat, un molo delle cremazioni tra i più antichi in città, e forse il più sacro in assoluto. «Matru Dom, signore». Mi giro. Davanti a me c’è un uomo piccolo, avvolto in una sciarpa bianca che mette ancor più in risalto la sua carnagione scura (caratteristica di molti intoccabili). Parla un inglese stentato: «Non saprei dire da quanto tempo la mia famiglia faccia questo lavoro. Custodiamo il fuoco sacro da generazioni. Facciamo un lavoro onesto, e non chiediamo in cambio nulla, solo donazioni spontanee». «La donazione più importante», prosegue, «venne dalla famiglia di un maraja: 5 milioni di rupie (quasi 90 mila euro, ndr). Ma noi accettiamo qualunque offerta. Anche 50 rupie». «Ci vogliono 360 chili di legna e 3 ore di tempo affinché le fiamme consumino un corpo», racconta. «I più ricchi comprano legna di sandalo, che arde meglio ed è profumata, ma costa oltre100 rupie il chilo (circa 2 euro)». Spesso, però, le famiglie più povere non possono permettersi abbastanza legna, e allora il corpo non brucia a sufficienza, rimangono dei pezzi intatti. I Dom sanno come gestire queste situazioni: rivoltano i corpi tra le fiamme, li colpiscono con un bastone, e riescono così a ridurre il tempo necessario alla cremazione. «Noi siamo esperti», sorride Matru. Poi mi confida: «Una volta noi Dom abbiamo bruciato anche la salma di un italiano. Lo trovarono morto nella sua stanza d’albergo. E accanto al cadavere c’era un foglietto, nel quale chiedeva di essere cremato qui. Così la polizia telefonò alla famiglia, in Italia, e chiese il permesso per la cremazione. Dopo lo affidarono a noi Dom. Le ceneri, però, non le abbiamo buttate nel Gange. La famiglia le ha volute indietro, così, alla fine della cerimonia, le abbiamo raccolte in un urna e sono partite per l’Italia con il primo aereo». «Molti indù non hanno denaro per finanziare un corteo funebre sino a Varanasi» riprende Matru. «Così bruciano il defunto a casa loro, e qui portano le ceneri, per disperderle». La cerimonia segue di solito un rituale preciso: dopo le parole pronunciate dal sacerdote è il primogenito del morto ad accendere il rogo, girandogli attorno cinque volte. La salma è avvolta in un sudario rosso se si tratta di una donna, bianco se si tratta di un uomo, giallo dorato se è una persona anziana, indipendentemente dal sesso. «Vieni. In cima a questa scalinata c’è il fuoco sacro. Te lo mostro». Una brace debole espira il suo fumo in una nicchia di cemento dipinta di rosso. Nella parte alta, cinque icone riconducono il fornetto alla sua dimensione spirituale: Shiva il distruttore danza in mezzo alle fiamme che rappresentano il ritmo perpetuo della distruzione e della creazione; accanto alla sua icona, c’è quella del paffuto Ganesh, il dio dalla testa di elefante, legato al concetto di fortuna; poi c’è Kali ”la nera”, con la lingua rossa e una ghirlanda di teschi umani appesa al collo, segni caratteristici della dea della morte; le ultime due mattonelle sono per Durga, moglie di Shiva che si batte per la difesa dell’ordine cosmico, e Vishnu il preservatore, associato al concetto di giustizia. «Il fuoco per le cremazioni deve partire da qui», assicura Matru, soffiando piano sulla brace per mostrarmi che è ancora viva. «Vedi questi steli di paglia? La gente li accende qui al tempio, e poi li usa per attizzare le fiamme sulla pira». Sul Gange l’alba arriva prima. Nei ghat delle cremazioni, i roghi sono ripresi a pieno ritmo. Enormi mucchi di legna sono impilati in cima alle scalinate, dove sono pesati su grosse bilance che stabiliscono il prezzo della cremazione. Fuoco sacro a parte. Mi affretto a nascondere la macchina fotografica. Scattare foto in questa zona è considerato sacrilegio. Dietro le pire dei defunti che ardono, incombe una struttura che sembra morta anche lei. il crematorio elettrico di Varanasi, voluto dal Governo per porre argine all’inquinamento del Gange, dove spesso, nonostante il lavoro dei Dom, sono gettati cadaveri non del tutto bruciati. Si calcola siano almeno 45 mila l’anno. Il livello d’inquinamento del Gange a Varanasi raggiunge livelli talmente alti che l’acqua è praticamente priva di ossigeno disciolto. Anni fa si era tentato anche di affidarsi a spazzini naturali: tartarughe carnivore. Ma le tartarughe sono scomparse in pochissimo tempo. Eppure il Gange ha una velocità di ”autodepurazione” che sfida la scienza. Il vibrione del colera, che in acqua distillata sopravvive 24 ore, nell’acqua del Gange resiste appena tre ore. Un rompicapo per gli scienziati.