Roberta Pizzolante, Macchina del tempo n. 5 maggio 2006, 5 maggio 2006
Studio dei fossili. Nome: Castorocauda lutrasimilis. Specie: mammifero acquatico. Segni particolari: era una via di mezzo tra un castoro e una lontra, capace di nuotare ancora prima di balene e delfini
Studio dei fossili. Nome: Castorocauda lutrasimilis. Specie: mammifero acquatico. Segni particolari: era una via di mezzo tra un castoro e una lontra, capace di nuotare ancora prima di balene e delfini. la carta d’identità di un animale vissuto sulla Terra 164 milioni di anni fa e tracciata di recente dai paleontologi del Carnegie Museum di Storia Naturale di Pittsburgh, negli Stati Uniti, dopo averne studiato i resti fossili conservati al Museo di Paleontologia Jinzhou in Cina. E non è la sola scoperta possibile grazie allo studio dei fossili. Analizzando i sedimenti ricchi di resti di organismi provenienti dal fondo marino al largo delle coste Nord Orientali del Sud America e vissuti nel Cretaceo, infatti, i ricercatori dell’Istituto oceanografico di Woods Hole nel Massachusetts hanno potuto ricostruire il clima bollente al tempo dei dinosauri scoprendo che 100 milioni di anni fa le acque dei mari tropicali raggiungevano i 42 gradi centigradi. E come dimenticare Lucy, scheletro fossile di uno dei più antichi antenati dell’essere umano, un Australopithecus afarensis femmina di 3,2 milioni di anni ritrovato in Etiopia? Gli esempi potrebbero durare a lungo e comprendere nomi strani e sconosciuti ai più, come Spinosaurus, Archaeopteryx, Tyrannosaurus rex, Sue. Eppure chiunque potrebbe imbattersi nei resti di una specie vegetale o animale, anche di un essere umano, che abitava il Pianeta milioni di anni fa. Ossa, denti, scheletri interi, uova, escrementi, conchiglie, impronte lasciate sui sedimenti umidi costituiscono l’affascinante oggetto di studio della paleontologia, la scienza che studia i fossili. Grazie a essi è possibile conoscere e ricostruire cosa accadeva sulla Terra milioni di anni fa, quale era il clima, come erano distribuite le terre emerse e i mari, quali specie ci vivevano. «Buona parte delle forme di vita che si sono succedute nel tempo ha lasciato qualche traccia o resto di sé: alcuni molto rari, per la scarsa preservabilità dei loro corpi, come gli insetti, i cui resti sono per lo più inglobati nell’ambra, o le meduse, di cui restano tuttavia le impronte», spiega Ruggero Matteucci, direttore del Museo di Paleontologia dell’Università ”La Sapienza” di Roma. «Altri resti sono invece in quantità tanto abbondanti da essere i principali componenti di rocce sedimentarie. In particolare in Italia, dove queste rocce sono molto diffuse, i fossili non sono affatto rari. Dovunque si cammini, basta guardare da vicino una roccia sedimentaria per intravedere strane strutture e forme sulla sua superficie che altro non sono che frammenti o sezioni di resti fossili». Questo tipo di rocce (per esempio arenarie, calcaree, argilliti) sono le ospiti privilegiate dei fossili perché permettono la fossilizzazione degli organismi animali o vegetali senza distruggerli, come succederebbe invece con rocce di altra natura, come quelle vulcaniche. Affinché un organismo si fossilizzi, infatti, deve essere sepolto rapidamente, prima che ne subentri la decomposizione o venga aggredito dagli agenti demolitori. Nella maggior parte dei casi questo avviene quando sedimenti come sabbia o fango trasportati dall’acqua lo ricoprono. Da qui ha inizio il lento processo di fossilizzazione delle sue parti dure che, alla fine, comporta la trasformazione chimico-fisica del resto organico, che può avvenire per mineralizzazione, impregnazione, sostituzione, carbonificazione, incrostazione. In genere i fossili ritrovati sono resti parziali di animali o piante. rarissimo infatti trovare un organismo che si conservi intatto. Ma qualche caso eccezionale non manca. «La putrefazione della materia organica può essere rallentata o fermata dall’intervento di fattori che inibiscono l’azione degli agenti della decomposizione: una sorta di frigorifero naturale - il suolo ghiacciato - ha permesso la conservazione in Siberia, in carne e ossa, di antichi abitatori delle regioni settentrionali, i famosi mammut», continua Matteucci. Ma cosa ci dicono i fossili? «Le informazioni che ci possono dare sono tante», spiega Mario Sacchi, appassionato di questi reperti. «Prendiamo le alghe azzurre. Sono le più antiche forme di vita dopo il Big Bang, sono state rinvenute in rocce, gli stromatoliti, dell’era Precambriana (3.500 milioni di anni fa) nell’Australia occidentale. Il loro studio ha permesso di ricostruire l’evoluzione fino ad almeno 2,7 miliardi di anni fa e il ruolo che hanno avuto nel preparare un’atmosfera ricca di ossigeno e quindi adatta allo sviluppo delle forme di vita. E lo stesso vale per i fossili dei primi crostacei, i trilobiti. Anche studiando la coprolite, cioè gli escrementi fossilizzati di animali o esseri umani, è stato possibile capire quali specie esistevano 300 milioni di anni fa e quale clima c’era sulla Terra». I fossili, dunque, come prova dell’evoluzione biologica. «La prima applicazione pratica della paleontologia si è avuta con la scoperta, verso la prima metà dell’Ottocento, di resti di organismi che non esistevano più. In questo modo si comprese che c’era stata una successione di forme di vita, un’evoluzione, e che era possibile utilizzare i fossili come indicatori di età degli organismi del passato», spiega Andrea Tintori, ordinario di Paleontologia al Dipartimento di Scienze della Terra ”Ardito Desio” dell’Università di Milano. «Se a particolari periodi della storia corrispondevano dei fossili, essi erano il mezzo migliore per correlare rocce della stessa età, ma presenti in regioni diverse. Si è determinata così una sequenza delle ere geologiche, corrispondenti alle principali estinzioni di massa, e una scala evolutiva tra le specie». La datazione delle rocce viene detta ”relativa” perché non fornisce un’età in termini assoluti (cioè in anni, migliaia, centinaia di migliaia o milioni di anni), ma solo in termini relativi, di maggiore o minore antichità. Per effettuarla si usano dei fossili-guida, cioè fossili che connotano in maniera precisa e inconfondibile i livelli rocciosi in cui si rinvengono, rispetto a quelli dei livelli più antichi e a quelli più recenti. Di conseguenza, a ogni livello roccioso, il contenuto fossilifero corrisponde a uno stadio del processo evolutivo. «Ma questo non è il solo utilizzo dei reperti fossili. Ce ne sono molti altri», continua Tintori. «I fossili permettono di ricostruire gli ambienti e il clima del passato (paleoecologia), la disposizione e gli spostamenti degli organismi e delle masse continentali (paleogeografia), e di risalire anche alla vita che l’organismo studiato conduceva, per esempio di cosa si nutriva e come si riproduceva (paleobiologia)». Nell’antichità non era tutto così chiaro. La teoria più accreditata considerava i fossili come forme di vita a cui Dio non aveva dato l’anima. Erodoto (nel IV secolo avanti Cristo) racconta della credenza secondo cui i piccoli corpi lentiformi che si trovavano nella sabbia intorno alle piramidi egizie fossero lenticchie pietrificate, residui dei pasti di coloro che lavorarono alla costruzione delle piramidi; si trattava invece di gusci di piccoli organismi fossili (Nummuliti), abbondanti nelle rocce utilizzate per edificare le piramidi e accumulate per erosione delle stesse sul terreno circostante. Si dovette attendere il Rinascimento, con Leonardo da Vinci, per avere una prima intuizione di cosa fossero i fossili. stata poi la nascita della paleontologia a segnare l’inizio di un viaggio a ritroso nel tempo che ancora oggi offre sempre nuovi indizi.