Limes n.3 2006, pagg.123-132 Fabrizio Maronta, 12 maggio 2006
Atlante storico-geopolitico del Continente Nero. Limes n.3 2006. Il termine «Imperialismo» diviene popolare a partire da uno studio del 1902 dell’economista inglese J
Atlante storico-geopolitico del Continente Nero. Limes n.3 2006. Il termine «Imperialismo» diviene popolare a partire da uno studio del 1902 dell’economista inglese J.A. Hobson, dal titolo, appunto, Imperialism. Esso individua una fase economica – a cavallo tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento, periodo di impetuosa crescita demografica, agricola e industriale dell’Europa – in cui la capacità produttiva dei principali Stati europei supera gradualmente quella di consumo, rendendo necessaria la ricerca di nuovi e più ampi sbocchi per merci e capitali, nonché nuove fonti di materie prime a costi contenuti per sostenere la produzione in aumento. All’elemento economico-industriale si associa, nel determinare i presupposti della corsa coloniale, una vigorosa spinta emulativa nei confronti della Gran Bretagna, il cui esteso impero è visto come presupposto del primato economico del paese. Da cui la convinzione, ampiamente diffusa nei governi e nelle opinioni pubbliche europee del tempo, che una politica di potenza nazionale non potesse prescindere dall’acquisizione di un impero coloniale. Tutto ciò non spiega però appieno l’impeto con cui nella seconda metà del XIX secolo le potenze europee si gettano nella corsa per l’accaparramento dei territori africani. Agli albori della corsa coloniale, infatti, l’Africa – specialmente quella tropicale – riveste un’importanza limitata per investitori e mercanti europei, almeno rispetto al Nuovo Mondo. A ciò si aggiunge una conoscenza approssimativa della quantità e ubicazione delle risorse africane; le quali, anche nel periodo di massimo sfruttamento delle colonie, affluiscono in Europa in misura minore di quanto inizialmente prospettato dalla propaganda imperialista. Come si vedrà, l’elemento scatenante dello scramble for Africa (fermo restando il contesto sopra accennato) risiede dunque altrove: precisamente nella convinzione, da parte delle potenze europee, che alla metà dell’Ottocento i loro interessi in Africa fossero ormai divenuti incompatibili con le caratteristiche delle autorità indigene. 2. Prima degli europei, quella arabo-islamica rappresenta la prima importante presenza esterna sul continente africano. La conquista dell’Africa settentrionale da parte araba inizia con l’invasione dell’Egitto nel 639, cui segue l’estensione dell’influenza musulmana sulla Cirenaica (Libia) e la progressiva conquista del Maghreb («Occidente»). Nel 711 l’intera Africa nordoccidentale è nominalmente sotto controllo arabo; da lì la penetrazione arabo-musulmana si spinge verso il Sudan. Fatta eccezione per l’Africa settentrionale, la presenza araba si attesta soprattutto sulle zone costiere, dove vengono impiantate le basi commerciali funzionali ad una prima forma di commercio degli schiavi, destinati alla penisola arabica e alla Persia. In base ad uno schema in seguito riprodotto dagli europei, la cattura e il trasporto degli schiavi verso le coste è appannaggio delle autorità autoctone. Il commercio degli schiavi diviene così il principale canale di integrazione dell’Africa nei circuiti economici mondiali. Esso permette ai mercanti – arabi prima, europei poi – di accedere al bacino demografico africano in maniera economica e sicura, mentre per le autorità indigene la tratta diviene, specialmente sotto gli europei, una crescente fonte di guadagno, che favorisce la nascita di nuovi Stati (come il Dahomey e l’Oyo) la cui economia si regge interamente sull’attività di intermediazione fra razziatori e commercianti. questo, tuttavia, uno sviluppo superficiale, che non introduce in Africa tecniche produttive e beni durevoli e da cui, di conseguenza, non scaturisce una modernizzazione delle strutture economiche, politiche e sociali. L’atto di nascita della presenza europea in Africa risale al 1415, quando i portoghesi – in cerca di una via per l’Asia alternativa alle rotte mediterranee e alla via della seta – sottraggono ai marocchini la città-fortezza di Ceuta, trampolino di lancio per l’esplorazione delle coste africane, prima sul versante atlantico e poi su quello indiano. Per più di un secolo, fino alla fine del Cinquecento, la presenza europea nel continente coincide in maniera pressoché esclusiva con quella portoghese. Questa, inizialmente, non è concorrente rispetto a quella musulmana, che rimane salda nel Maghreb e in Sudan, mentre i portoghesi si attestano sulle coste occidentali e su quelle orientali (Mozambico), base delle rotte verso le Indie. La scoperta del Nuovo Mondo, nel 1492, produce conseguenze notevoli sulla dinamica della presenza europea in Africa. Da un lato, essa pone fine alla rivalità ispano-lusitana per il controllo dell’Africa centro-settentrionale (con il trattato di Tordesillas del 1494, la Spagna lascia mano libera al Portogallo in Africa, e altrettanto fa Lisbona con Madrid per quanto concerne l’America meridionale, Brasile escluso); dall’altro, pone le premesse della lucrosa tratta degli schiavi africani nelle Americhe, che riceverà forte impulso dal consolidarsi, a partire dal XVII secolo, della presenza britannica in Nordamerica. Il Portogallo non ha pressoché rivali nel commercio africano (che, fino all’abolizione della schiavitù, ha nella tratta transatlantica degli schiavi la sua attività principale) fino al 1580, anno in cui i mercanti olandesi, che dispongono di navi e tecniche di navigazione migliori, fanno la loro comparsa sulla scena africana. Nel primo decennio del XVII secolo, la Compagnia olandese delle Indie orientali annienta la potenza portoghese nell’Oceano indiano e, tra il 1637 e il 1642, la Compagnia olandese delle Indie occidentali fa altrettanto sulle coste occidentali dell’Africa, decretando la fine del monopolio commerciale portoghese (il Portogallo conserverà in Africa solamente l’Angola sulla costa occidentale e il Mozambico su quella orientale). Ciò, a sua volta, facilita l’insediamento di compagnie commerciali inglesi (in Costa d’Oro) e francesi (in Senegal e Gambia). La ferma volontà di aggiudicarsi il controllo del mercato africano gioca un ruolo importante nelle guerre che contrappongono Olanda, Inghilterra e Francia tra il 1652 e il 1713, le quali si risolvono nell’annientamento della presenza olandese in Africa, a cui si sostituisce la rivalità anglo- francese. Questo periodo coincide con un forte incremento della domanda di schiavi da parte delle colonie britanniche nelle Americhe, che nel volgere di pochi decenni surclasserà quella europea. Per tutto il XVIII secolo, l’Atlantico è attraversato dai vascelli europei che coprono le rotte del cosiddetto commercio triangolare. Il circuito vede le navi europee fare rotta verso le coste africane occidentali – nel tratto compreso tra il Senegal e il Congo – dove caricano schiavi, per poi salpare alla volta dei Caraibi. Qui, gli schiavi vengono venduti – per il mercato sudamericano prima e poi, in misura crescente, per le colonie britanniche del Sud – ed i proventi reinvestiti nell’acquisto di prodotti locali, che stivati nelle medesime imbarcazioni sono riportati in Europa e qui venduti, per poi ricominciare il tragitto. Il sistema si fonda sullo scambio di tre beni principali: zucchero, rum e schiavi. I distillatori europei producono il rum con lo zucchero dei Caraibi. Le navi negriere europee, una volta sulle coste africane, scambiano il rum con gli schiavi, a loro volta scambiati nelle Americhe con lo zucchero caraibico e con il cotone delle colonie britanniche, che va poi a rifornire l’industria tessile europea (prevalentemente inglese). L’impatto demografico della tratta degli schiavi sul continente africano è a tutt’oggi oggetto di dibattito. Le stime più attendibili valutano in 11-12 milioni il numero di schiavi che lasciano l’Africa tra il XV e il XIX secolo. Maggiore – ma anche più controverso – l’impatto della tratta sulla dinamica demografica africana. Si stima che, in assenza di questa «emorragia», nel 1850 il continente africano avrebbe contato 50 milioni di abitanti, invece dei 25 effettivi. 3. Al crescere della rivalità europea in Africa si associa, nel corso di tutto il XIX secolo, il parallelo intensificarsi dell’attività esplorativa, entrata nel vivo alla fine del Settecento ma i cui inizi risalgono al principio stesso della presenza europea in Africa. Le ragioni che spingono gli esploratori coincidono solo in parte con quelle della corsa coloniale. Gli esploratori inglesi e francesi (i più numerosi), al pari di quelli tedeschi, portoghesi ed italiani, condividono con i loro predecessori arabi la sete di conoscenza geografica e scientifica (un grande impulso alle esplorazioni, nel XIX secolo, è dato dall’affannosa ricerca delle sorgenti del Niger e del Nilo). Elemento distintivo degli esploratori europei è invece la ricerca di fama presso i rispettivi governi ed opinioni pubbliche, tendenza che si manifesta specialmente nella seconda metà dell’Ottocento, quando il connubio tra attività esplorativa e penetrazione coloniale si fa più stretto (come attesta la frequente coincidenza tra le rotte esplorative e l’area in cui si dispiega la presenza coloniale dei paesi di provenienza degli esploratori). Nel corso dell’Ottocento, alla figura dell’esploratore si affianca quella del missionario: la spinta evangelizzatrice porta alla fondazione di missioni all’interno del continente, che spesso servono da avamposti della penetrazione coloniale europea. A metà dell’Ottocento, in buona parte degli Stati europei la crescente avversione alla schiavitù, maturata nel corso del secolo precedente, assume i tratti di una condanna morale generalizzata. Soppressa nei territori metropolitani di Gran Bretagna, Portogallo e Francia già dal 1770, la schiavitù è ufficialmente abolita nelle colonie francesi nel 1794, in quelle britanniche nel 1833 (dal 1807 l’Inghilterra, insieme agli Stati Uniti, aveva già vietato la tratta), in quelle francesi e olandesi nel 1848 e negli Stati Un Fabrizio Maronta