Limes n.3 2006, pagg.7-21, Lucio Caracciolo, 12 maggio 2006
Appuntamento a Timbuktu. Limes n.3 2006. Fino a ieri si poteva disegnare il mondo senza Africa. Cancellandola dal planisfero, l’equazione di potenza globale sarebbe rimasta immutata
Appuntamento a Timbuktu. Limes n.3 2006. Fino a ieri si poteva disegnare il mondo senza Africa. Cancellandola dal planisfero, l’equazione di potenza globale sarebbe rimasta immutata. Il continente nero era solo un continente-oggetto. Privo di attori geopolitici di qualche rilievo, con meno del 2% del commercio globale, ridotto a mimare tragicamente i «modelli di sviluppo» neoliberisti, devastato dalle guerre, dalle pandemie e dalla desertificazione. Soprattutto, incapace di produrre un messaggio culturale proprio. Di dire una parola davvero africana. «Quarant’anni dopo l’indipendenza noi non produciamo nemmeno una biro», constatava Joseph Ki-Zerbo, patriarca della storiografia nera. La camerunese Axelle Kabou si domandava se gli africani non rifiutassero lo sviluppo perché ormai colonizzati nel profondo della coscienza, tanto da essere gli unici al mondo a credere che il proprio futuro dipendesse dagli altri. Un giornalista nero del Washington Post, Keith B. Richburg, dopo aver girato l’Africa alla ricerca delle sue radici, travolto dalla repulsione concludeva: «Grazie a Dio sono americano » – non un afro-americano. Fino alla provocazione di Stephen Smith, africanista di Libération e poi di Le Monde, che echeggiando gli umori di alcuni salotti parigini stabiliva: l’Africa muore «perché si suicida ». E bollava «l’essenzialismo pigmentario» dei cantori della negritudine, prigionieri di un razzismo rovesciato che li condanna all’emarginazione permanente. Parafrasando il celebre pamphlet di René Dumont, al passaggio di secolo si inclinava a credere che l’Africa nera, mal partita, fosse al capolinea. Un mondo condannato. Inutile. Al massimo, un campo di esercitazione per le anime belle dell’industria della compassione, per i praticanti del charity sport. Simili stereotipi alimentano tuttora la schermaglia fra afropessimisti e afrottimisti, questa sì inutile. L’Africa non è monocroma. Né è riducibile al bianco/nero. Il continente sul quale sette milioni di anni fa apparvero i nostri antenati vanta anzi la massima varietà umana e ambientale. Dobbiamo quindi leggerne tutti i colori, integrarne e confrontarne ogni punto di vista. Non per dimostrare una tesi, ma per coglierne la dinamica. Rinunciando alla stenografia geopolitica, che nell’ansia della sintesi omette le linee di faglia che tagliano il continente in ogni direzione - spesso codeterminate dai fattori ambientali e climatici - dimenticando le molte Afriche che (non) fanno l’Africa. A cominciare dalla cesura principale, fra un Nordafrica culturalmente e storicamente connesso all’Eurasia più che al resto del suo stesso continente, e l’Africa subsahariana, su cui ci concentriamo in questo volume. 2. Oggi espungere l’Africa dal planisfero è un errore blu. Per almeno tre motivi. Primo: qui si gioca una partita importante nel confronto globale fra Cina e Stati Uniti, anzitutto sul dossier energetico. Secondo: la guerra al terrorismo, specie nella versione dello «scontro di civiltà» fra Occidente e islam, coinvolge sempre più vasti e cruciali spazi africani. Terzo: questo non è più l’imbelle continente-oggetto della stagnazione postcoloniale (poco post e molto coloniale), ma un insieme di territori in caotico fermento, che si stanno definitivamente scrollando di dosso i «padri fondatori». E dove fiorisce la prima potenza autoctona di ambizioni globali: il Sudafrica. Cui aspirano ad affiancarsi altre potenze regionali in fieri, a cominciare dalla Nigeria – se non collasserà prima, vittima dei suoi conflitti intestini. Se tensioni e guerre continuano a destabilizzare diversi Stati – tuttora largamente patrimoniali, ossia proprietà del capo e del suo clan – cominciano a strutturarsi alcune organizzazioni regionali deputate anzitutto ad ampliare i mercati e a cogestire la sicurezza. Fino al varo, nel 2002, dell’Unione Africana, poco più di un fantasma, ma sintomo di un anelito panafricano che continua a scorrere nelle vene profonde del continente. A conferma che gli Stati africani non sono così «artificiali», come si ama definirli con una punta di razzismo – quasi altrove vigessero Stati «naturali» – ma cominciano a stimolare un senso di appartenenza, financo di patriottismo, condizione necessaria a muoversi da soggetti sulla scena internazionale. Nella vita civile si agitano nuovi attori sociali, fermentano partiti transetnici, nascono media vivaci e coraggiosi. Non ci sono più solo i residui delle culture tradizionali, la borghesia compradora e le élite politiche supercorrotte, pronte a riconvertirsi per gestire improbabili «transizioni democratiche». I terremoti geopolitici degli anni Novanta, prodotti dal genocidio ruandese e dalla conseguente «prima guerra mondiale africana», oltre che dallo smantellamento del regime razzista sudafricano, hanno significato un cambio di fase nell’Africa subsahariana. Certo, il baratro dell’arretratezza resta vertiginoso. Un africano medio vive una generazione meno di un europeo. Il 44% degli abitanti dell’Africa subsahariana non dispone neanche di un dollaro al giorno. Un terzo non ha accesso all’acqua potabile, due terzi ai servizi sanitari di base. 30 degli ultimi 32 paesi nell’indice Onu di sviluppo umano sono africani. Su 3,1 milioni di morti di Aids nel 2005, 2,4 milioni (77%) abitavano il continente nero, dove altri 25,8 milioni convivono con l’Hiv. Ma almeno le potenze occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali hanno abdicato all’ideologia dell’«aggiustamento strutturale» – ossia della destrutturazione degli embrioni di Stato postcoloniale, onde meglio attingere alle loro risorse – per esaltare l’African ownership, una strategia che, se non altro a parole, vorrebbe spingere i paesi destinatari degli aiuti internazionali a produrre essi stessi i piani di sviluppo e orienta i donatori a finanziarne direttamente il bilancio pubblico. Inoltre, il Nord ha accennato qualche passo verso la cancellazione del debito degli Stati più poveri, mentre ha cominciato ad abbattere alcune barriere daziarie. Tra retorica e fatti, il passo resta piuttosto lungo. Secondo la Banca mondiale, il tasso di crescita dell’Africa subsahariana ha toccato nel 2005 un rispettabile 4,8%, contro il 4,1% del 2004. Per il 2006 le prospettive sono ancora migliori, fino ad avvicinare la soglia del 6%. Con un’economia informale valutata attorno al 70% del totale. L’aumento del pil è favorito dalla bonanza energetica: con il barile di greggio schizzato a oltre 70 dollari, i produttori africani (Nigeria in testa) affogano nei petrodollari. Salvo farli defluire in massa verso i conti segreti dei leader africani nelle banche occidentali e nei paradisi fiscali. Se al rincaro delle materie prime di cui l’Africa è ricchissima non corrisponderanno politiche economiche mirate al beneficio delle popolazioni locali, sarà sprecata una rara occasione di dare sostanza allo sviluppo endogeno. L’Africa tornerà a pieno titolo al centro dei nostri planisferi solo quando avrà superato lo shock semimillenario della tratta dei negri e del colonialismo europeo, che ne hanno devastato l’identità. O meglio, le identità, espresse anche dalla babele di idiomi locali, a lungo compressi dalla lingua franca dei colonizzatori – francese, inglese, spagnolo, tedesco, italiano o portoghese che fosse – che ha peraltro facilitato ai giovani africani l’accesso all’universo interdipendente della cosiddetta globalizzazione. Senza identità è impossibile riappropriarsi criticamente della propria storia. Oggi ridotta a poco più della storia degli europei in Africa. Come scrive John Lonsdale: «Se l’Africa deve avere un qualche futuro allora deve avere un passato diverso, sebbene sia molto probabile che esso sovverta il presente». 3. Noi italiani ed europei dovremmo coltivare un interesse speciale a che gli africani non soccombano alle loro tragedie e recuperino un’autonoma coscienza identitaria. L’Africa resta infatti il più europeo fra i continenti extraeuropei. L’Eurafrica come idea di uno spazio da fertilizzare in comune – una visione proposta da ambienti alquanto eterogenei di entrambi i continenti - potrebbe forse tradursi in geopolitica. Ne siamo però lontani. Per misurare quanto siderale sia nelle nostre élite la distanza che ci separa dall’Africa, si consideri che gli investimenti europei vi rappresentano un quarantesimo circa di quanto affluito nell’ex impero sovietico dopo il crollo del Muro. Le opinioni pubbliche veterocontinentali colgono dell’Africa solo le emergenze umanitarie, la diffusione dell’Aids e, più raramente, i massacri. Quanto alla pressione migratoria, oscilliamo tra paura e rimozione. La prima spinge alcune fonti di intelligence a rimarcare come l’aiuto ai paesi ultrapoveri rafforzi i flussi migratori verso di noi, perché offre qualche mezzo in più a chi vuole fuggire da quella miseria per raggiungerci attraversando il Sahara e il Mediterraneo. Il che significa: meno aiutiamo il Quarto Mondo a diventare Terzo, meglio è. La seconda inibisce lo slancio di chi nelle nostre società vorrebbe dare un senso all’idea eurafricana, dedicandosi a fecondare la convivenza con le comunità degli immigrati. Il peso di un passato coloniale ancora molto presente contribuisce a impedire un approccio davvero europeo all’Africa. Per Parigi, quel che resta della Françafrique è un dominio riservato, da proteggere anche con la forza. E il passato coloniale un bene da santificare per legge. Visto da Londra, il Commonwealth britannico non è solo un parco attrezzato per le cerimonie cadenzate dalla regina Elisabetta, ma un pilastro della geopolitica globale di Londra, uno strumento per pretendere al rango di brilliant second della superpotenza americana. Quanto a noi, vale il contrario. Nelle nostre ex colonie l’Italia è soprattutto una presenza monumentale, che attira i cultori di un’architettura a lungo negletta sol perché prodotta sotto il fascismo. Se ai tempi della Prima Repubblica co Lucio Caracciolo