varie, 11 maggio 2006
RONCHI Andrea
RONCHI Andrea Perugia 3 agosto 1955. Politico. Eletto alla camera nel 2001, 2006, 2008 (An, Pdl). Ex ministro per le Politiche comunitarie nel Berlusconi IV (2008-2010), nel dicembre 2010 passò a Futuro e Libertà, dal luglio 2011 nel gruppo misto • «[...] fino a qualche anno fa faceva il giornalista in una televisione romana. Pare sia stato Gaetano Rebecchini - figlio del sindaco della Roma del dopoguerra, Salvatore - a presentarlo a Gianfranco Fini. Tra i due comunque il feeling è stato immediato, e il leader di Alleanza nazionale ormai si fida di lui quasi quanto si fidava una volta di Storace. Quasi: l’esperienza insegna» (“la Repubblica” 8/5/2008) • «[...] Secondo la leggenda, a Silvio Berlusconi piacque per pregiudizio: “Ronchi? Come Ronchi dei Legionari? Fantastico, fa per noi”. Formidabile portavoce di Alleanza nazionale - a tutti i giornalisti dice “sarai il primo a saperlo, amico mio”, e poi non svela nemmeno mezzo segreto [...]» (Massimo Gramellini e Mattia Feltri, “La Stampa” 8/5/2008) • «Il ronchismo è, principalmente, un esercizio di buone intenzioni. Il materiale, a volte, è quello che è, ma con quel poco che si ritrova tra le mani, Andrea Ronchi fa miracoli. Ce n’è precisa conferma osservando i due fronti che più appassionatamente presidia: il tricologico e il politico. E siccome è nella penuria (pure di peluria) che la qualità rifulge, qui tutta la nobiltade del ronchismo trova elevazione. Sul tricologico, Ronchi è uno che innova, ma nella tradizione, come correttamente tocca al portavoce di un partito di destra. Così, nonostante i deplorevoli cedimenti dell’alleato Schifani, lui sul riporto non cede, anzi lo innalza, lo vaporizza, lo valorizza. “Riporto con messa in piega”, dicono ammirati gli stessi dirigenti di An. Che svetta alto sul gruppo dirigente di via della Scrofa, che sfida impavido le onde di Anzio, laggiù nel litorale dove gli affanni di Gianfranco trovano respiro e riposo, e Ronchi è uno dei pochi ammessi al circolo ristretto. Non è uomo, si capisce, da caffetteria, come quegli sgallettati dei colonnelli finiti a chiacchiere e a sputtanamento. Il ronchismo è la pratica di affrontare ecumenicamente la folla del Transatlantico, sfiorare il gomito del cronista, sorridere sempre, occhiate complici, sospiro indefinito. Ma soprattutto è lo sfiorare del muro, l’occhiata d’intesa, la mano sospesa tra il teso e l’abbandono. Perché appunto, elevata in alto tutta la rimanenza tricologica, la giornata del ronchismo principalmente consiste nel portare almeno alla stessa altezza la diradata concupiscenza che suscita la destra di governo. S’intende che Ronchi è quanto di meglio Fini potesse trovare: il ronchismo, del quieto finismo, è ornamento e definizione. Per sua natura il ronchismo è subacqueo, e pure qui si capisce quanto alto possa essere l’apprezzamento del leader di An, che in certi giorni preferirebbe trovarsi faccia a faccia con una medusa che con qualcuno dei suoi. Ronchi è silente e presente, ma se occorre è pure ciarliero e assente. Ha i quarti di nobiltà necessari a un partito post-fascista come si deve, il ronchismo. Destra democristiana, pur con sconfinamenti nello sbardellismo, che ben coniuga nell’immaginario del capo, che parecchio detesta quello che si era, quello che si sarà. È la pratica nobile del burraco, che democraticamente associa alla mejo ggente de’ Roma, è guida nei salotti che contano, è luce nella notte politica che incombe. Sta sempre un sospiro di quarto al leader, Ronchi, un soffio alle spalle, un alito indietro. Ma mai fuori inquadratura, mai fuori dal cerchio magico, mai fuori dal più soffuso richiamo. I fasci che furono cominciarono a tenerlo d’occhio (genere: non perdetelo di vista) già quando, alla fine degli anni Novanta, convinse il partito ad adottare come simbolo della conferenza programmatica una coccinella che passeggiava sculettando intorno alla sacra fiamma, lasciandosi dietro una serie di parole d’ordine che a qualche camerata poco propenso suscitò inquietanti quesiti: “Ma che fa, caga pure?”. Figurarsi Ronchi, tutto onore: lui era lì con Gianfranco a tracciare l’avvenire, non a rivangare il passato. Da quando è deputato, staziona spesso nel Transatlantico, con certi pantaloni gessati a sigaretta che disegnano gambette toniche, destra governativa che sta a pie’ fermo. Offre il petto alla causa, ma sempre con garbo, loda il capo, ma sempre con misura. Certo, quando dice “Gianfranco…” senti che il respiro ha una lunga coda che s’innalza verso il cielo, supera il riporto che si staglia lì di fronte, ma niente di più. A via della Scrofa, per unanime giudizio, nessuno sa fare alle dame il baciamano come lui, “bravissimo, con contorcimento incorporato”, e mica a caso porta la sua firma la proposta di legge per “l’istituzione della professione di maestro di fitness”. [...]» (“Il Foglio” 12/8/2006) • «[...] a quasi ogni ora del giorno e della notte compare in video, spesso su più reti contemporaneamente [...] appare [...] sgualcito [...] impolverato, come se tra una diretta e l’altra lo riponessero nel ripostiglio delle scope. Ad aggravare l’impressione visiva di precarietà e afflizione, va aggiunto che Ronchi non si aiuta molto quando parla: ha infatti un repertorio fisso, consistente della ripetizione, con pochissime varianti, di un solo concetto. “Il paese è spaccato in due”. Lo dice in tono risoluto e definitivo, non come fosse un’opinione politica, ma la perizia di un carpentiere. Si intende che la spaccatura del paese, alla quale noi, confessiamolo, prestiamo attenzione solo quando qualcuno ce la segnala, è invece per lui un quotidiano assillo, fin dal risveglio. Non vede l’ora di andare in televisione, in una trasmissione qualunque, per avvertirci che il paese è spaccato in due. Vorremmo confortarlo, ma dove raggiungerlo? Su quale satellite? E in quali studios, Nomentana, Saxa Rubra o Cologno?» (Michele Serra, “la Repubblica” 11/5/2006).