Il Giornale 06/05/2006, pag.32 Giancarlo Perna, 6 maggio 2006
Il professore che aveva sempre ragione. Il Giornale 6 maggio 2006. Se ci limitassimo a giudicare il Nostro dal suo elogio della masturbazione, faremmo del folklore
Il professore che aveva sempre ragione. Il Giornale 6 maggio 2006. Se ci limitassimo a giudicare il Nostro dal suo elogio della masturbazione, faremmo del folklore. vero che la presa di posizione suscitò clamore e i benpensanti, per denigrarlo, paragonarono la masturbazione al suo sistema di pensiero. Il Nostro sosteneva che l’uomo doveva appoggiarsi sulla sola Ragione, poiché l’esistenza di Dio era indimostrabile. I bacchettoni, inorriditi, lo aspettavano al varco. Così, quando l’ateo mostrò indulgenza per «l’amore solitario», conclusero sghignazzando che libero pensiero e masturbazione erano un tutt’uno. Una tipica diatriba settecentesca. Oggi, nessuno che difenda l’onanismo sarebbe ostracizzato, anzi andrebbe al contrattacco accusando di passatismo i moralisti. Con quella uscita estemporanea, il Nostro dimostrava di usare la testa senza pregiudizi e di precorrere i tempi. Il libertino era tutt’altro che tale. Uomo di esemplari costumi, regolava la vita sul flusso della clessidra. Nacque, visse e morì a Monte di Re, nella cui università insegnò prima Matematica, poi Metafisica. Senza mai muoversi, fu tra i massimi geografi del tempo. Universalmente famoso, riceveva continue visite di viaggiatori. Enormemente curioso, li subissava di domande su genti e terre che avevano esplorato. In questo modo, fu in grado di tenere un memorabile seminario sulla lontana Cina, il Paese allora in voga tra gli illuministi. Spaziava dall’astronomia alle matematiche, dalla chimica alla filosofia. Ma discuteva con competenza di moda se si trovava in compagnia di graziose damigelle. Nonostante fosse molto corteggiato, rifiutò di accasarsi. Fu sordo, a quanto pare, ai richiami del sesso, riservando i suoi entusiasmi alla sola sfera intellettuale. Viveva in agiatezza, accudito da alcuni domestici. Fu particolarmente affezionato al suo maggiordomo, Lampe. Quando questi morì, ne ebbe tale dolore che trascurò per giorni il lavoro. La cosa era senza precedenti e sentì di doverla combattere. Così decise di attaccare al suo scrittoio un cartello che diceva: «Dimentica Lampe». L’apparente idiozia di mettere un foglio che gli ricordava di dimenticare, indicava invece una sua convinzione profonda: la forza della ragione doveva servire a uscire da qualsiasi situazione, anche la più affliggente. Con Lampe se ne era andato colui che conosceva tutte le sue manie. Per anni, era toccato a lui svegliarlo all’alba con l’ordine di ignorare le contumelie che il professore assonnato gli rovesciava addosso e di cui pochi minuti dopo faceva ammenda. Una volta sveglio, il Nostro si metteva al tavolo di lavoro. Si alzava solo per percorrere in un tempo esattamente calcolato il tragitto che lo separava dall’università e iniziare il corso alle sette in punto. Finita la lezione, secondo il costume dell’epoca, il professore girava di banco in banco con una vaschetta per raccogliere l’onorario che ciascuno studente pagava per la lezione. Rientrato a casa, lavorava fino all’ora del pranzo. Qui, cominciava il gran momento sociale del Nostro. Patito dello slow food, stava a tavola dalle tre alle quattro ore conversando con una scelta schiera di commensali. Mai meno di tre e mai più di nove. O come preferiva dire, in un numero compreso tra le Grazie e le Muse. In tali convivi, così necessari allo sfogo della sua verve, e nel salario destinato ai domestici, il docente spendeva tutto ciò che guadagnava. Aveva una filosofia del denaro da scapolo ben nato: «Né debiti, né spilorceria», soprattutto, mai affannarsi per accumulare soldi. Un atteggiamento che smentiva le sue origini scozzesi. Giunto però alla vecchiezza e quasi dimenticato, i commensali si fecero sempre meno numerosi. Era stato preso dalla mania dell’igienismo. Masticava a lungo la carne e ne sputava i resti. Sosteneva che solo il succo era nutriente mentre la polpa guastava lo stomaco. Divenne piuttosto disgustoso, tanto che neppure un paio di Dioscuri si affacciavano più alla sua mensa. Ma questo avveniva poco prima della sua morte a 80 anni. Nei tempi felici, si alzava da tavola col sole calante per la solita passeggiata sulle cinque isolette della Pregolja, il fiume di Monte di Re. Il tragitto fu per decenni una sfida rinnovata. Il Nostro si era prefisso di trovare il percorso più breve tra le isole, senza attraversare due volte gli stessi ponticelli che le univano. Nonostante fosse un genio, non venne mai a capo del busillis. La soluzione è stata poi trovata con la «teoria dei grafi», ramo recente della matematica. Durante la passeggiata sul fiume, era sempre avvicinato dallo stesso mendicante che cercava di strappargli un’elemosina. Ogni volta, il professore gliela rifiutava dandogli del pelandrone. Poi cercava di colpirlo col bastone che l’altro schivava con abilità. E si lasciavano col tacito accordo di ripetere la gag il giorno dopo. Rientrava immancabilmente alle 18 e le massaie del vicinato si regolavano sul suo passaggio per accendere i fornelli. Poiché il nocciolo della sua teoria è che la ragione umana dà a sé stessa le sue leggi e nessun Dio abita la volta celeste, volle sulla tomba questo epitaffio: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me». Chi era? Immanuel Kant (1724-1804). Prussiano di Koenigsberg (letteralmente: Monte del Re), fu il Copernico della filosofia. L’astronomo polacco dimostrò che era la Terra a girare attorno al Sole, non viceversa. Kant stabilì che non è il mondo esterno a imporre la sua immagine alla nostra mente, ma la nostra mente a «sagomare» il mondo. Per l’uomo, il mondo reale (noumeno) è inconoscibile. Può solo vederne l’apparenza (fenomeno) come la dipinge, in base a propri criteri analitici, il suo cervello. Se già la realtà è un fantasma, tanto più lo è Dio. Seguaci-traditori di Kant furono Hegel, Marx e Nietzsche, padri di tre mostri: idealismo, comunismo, nazismo. Giancarlo Perna