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 2006  maggio 08 Lunedì calendario

Quirinale: elezioni del presidente/4, La Stampa, 8 maggio 2006 L’ora dei presidenti laici La mossa del socialista Pertini: l’amicizia con Wojtyla PI che una vera regola, con una cadenza precisa, l’alternanza al Quirinale tra laici e cattolici ha avuto sempre caratteristiche di casualità: l’elezione al Colle essendo una lotteria dagli esiti imprevedibili, finché c’è stata la Dc, i laici si son fatti largo nelle guerre interne democristiane, entrando all’improvviso, di soppiatto, di lato, nel gioco delle votazioni, oppure ritirandosi, teatralmente, per poi riapparire al momento giusto

Quirinale: elezioni del presidente/4, La Stampa, 8 maggio 2006 L’ora dei presidenti laici La mossa del socialista Pertini: l’amicizia con Wojtyla PI che una vera regola, con una cadenza precisa, l’alternanza al Quirinale tra laici e cattolici ha avuto sempre caratteristiche di casualità: l’elezione al Colle essendo una lotteria dagli esiti imprevedibili, finché c’è stata la Dc, i laici si son fatti largo nelle guerre interne democristiane, entrando all’improvviso, di soppiatto, di lato, nel gioco delle votazioni, oppure ritirandosi, teatralmente, per poi riapparire al momento giusto. Tattiche come queste sono sempre a rischio: ed anche sulla trincea laica, di conseguenza, sono rimasti i corpi di tanti illustri trombati, da La Malfa e Nenni, a Valiani e Spadolini. Chi ce l’ha fatta, invece, come Saragat e Pertini (Ciampi è un caso a sé), c’è riuscito movendosi in prima persona. Nell’elezione di un laico, manco a dirlo, è più forte l’ombra del Vaticano, il placet che deve arrivare d’Oltretevere a candidati senza obbedienza diretta. Se Einaudi è un laico che porta la croce, intesa come la più importante onorificenza pontificia, Saragat, che può vantare qualche benemerenza (la Santa Sede preferiva lui, anticlericale credente, a Merzagora, democristiano ateo), se la gioca poco prima di essere eletto, temendo che possa nuocergli con il Pci. Quanto a Pertini, che ha fama di mangiapreti, il problema lo risolve a modo suo: diventa amico personale di Wojtyla e va in montagna a sciare con lui. Nel ’64, quando Saragat diverrà Presidente, la Dc, come sempre, ha due candidati, Leone e Fanfani, e il Pci per la prima volta gioca in proprio. Al vertice del Bottegone, orfano del Migliore, si svolge una riunione singolare. Togliatti è morto da qualche mese, ma è come se sedesse ancora al suo posto. E i membri della segreteria si misurano con citazioni del suo testamento politico, il «memoriale di Yalta», scritto prima di morire, in cui raccomandava al partito di restare autonomo, ma cercando di uscire dall’isolamento. Quattro contro quattro «Eravamo in quattro contro quattro - ricorda Emanuele Macaluso, a lungo dirigente di altissimo rango - e Longo non voleva far pesare il suo voto di segretario». Longo, Amendola, Pajetta e Macaluso sono per Saragat, una scelta più coerente con un riavvicinamento tra le varie anime della sinistra, e con la linea amendoliana che ha vagheggiato, in un articolo su «Rinascita», nientemeno che un partito unico dei lavoratori. Ingrao, Berlinguer, Alicata e Natta puntano su Fanfani, che, con la sua idea fissa dell’impresa di stato, sembra a loro un avversario più credibile del capitalismo privato e dell’odiata economia di mercato. Intanto, si vota. E le votazioni vanno avanti, com’è nella tradizione del Quirinale, senza approdare a un risultato. Leone cala, Fanfani non decolla. A modo suo, senza tante parole, Moro chiede a Donat-Cattin di trovare una soluzione. «I metodi sono tre, il pugnale, il veleno e i franchi tiratori», spiega Donat-Cattin ai suoi, e prevarrà il terzo espediente. Alla fine Nenni scende in campo contro Fanfani, e il Pci, che li vede già sconfitti entrambi, spinge Saragat a chiedere apertamente i voti comunisti. Sarà l’ultima cosa di sinistra che il vecchio leader socialdemocratico farà, pur di essere eletto. Per il resto, d’intesa con Moro, che è stato il vero artefice della sua elezione, la sua sarà una presidenza prudentissima, burocratica, molto frenata. E rallegrata quasi solo dal telegramma di congratulazioni, che fa ridere mezza Italia, inviato dal Presidente a Sofia Loren per la sua maternità. Al Quirinale Saragat vive solo, silenzioso, anche se di tanto in tanto invita qualche amico a pranzo e ama pasteggiare a champagne. Politicamente, del suo settennato, farà una sorta di guardianìa a un centrosinistra che passa pigramente da un governo all’altro. La fantasia al potere Con Pertini, invece, nel ’78 la fantasia arriva al Quirinale. Una ventata di energia e di vitalità che nessuno poteva prevedere nell’anziano capo partigiano, ottantenne, medaglia d’oro della Resistenza, e che lo porta a prevalere in un’elezione arenata sui soliti veti incrociati. Pertini riuscirà a mettere d’accordo tutti i partiti della solidarietà nazionale, a ridargli entusiasmo e a farsi eleggere, in un plebiscito che gli porta ben 832 voti. Il risultato è così clamoroso che tutti, da Pajetta a Mancini, da Zaccagnini a Craxi, correranno a rivendicarne la paternità. Ma come Nenni quattordici anni prima, e come Spadolini e Valiani due settennati dopo, anche stavolta c’è un grande sconfitto: è La Malfa, entrato nella corsa con l’aureola del padre protettore del Pci e della formula di unità nazionale, e uscito tradito da democristiani e Psi. L’altro mezzo sconfitto è Craxi, alla sua prima partita presidenziale: puntava su Giolitti e si ritrova Pertini, il socialista più lontano da lui. «Eppure, posso testimoniarlo, Craxi non se la prese - racconta Rino Formica, per molti anni al suo fianco al partito e al governo -. Il vero risultato era aver portato un socialista al Quirinale. E poi sapevamo cosa Pertini aveva in testa». Scalzare la Dc da Palazzo Chigi, ecco cos’aveva in mente Pertini. Il Presidente ci prova subito con Craxi, e non gli riesce. Poi ci riprova con Saragat, ed è ancora buca. Con La Malfa, idem. Finalmente ce la fa con Spadolini, che nell’82, primo laico, arriva alla guida di un governo pentapartito. E dopo le elezioni dell’83, in cui la Dc perde due milioni di voti, è il turno di Bettino. Ma adesso che il segretario socialista è diventato premier, il Presidente della Repubblica, pur avendolo voluto, fa la parte di quello che lo vuol tenere a bada. Craxi attacca il Parlamento per la lentezza e la dispersione dei suoi lavori, e Pertini lo difende. Craxi critica la magistratura, e Pertini si schiera al fianco dei giudici. Craxi ripropone il tema della trattativa con i terroristi nel sequestro del magistrato D’Urso, e Pertini manda un telegramma di congratulazioni al giudice Calogero, grande accusatore in un discusso processo a fiancheggiatori del terrorismo. E a sorpresa, il confronto tra i due protagonismi, quello craxiano e quello pertiniano, invece di nuocergli, gioverà a tutti e due. Il contraltare Perché il Presidente non è più solo il contraltare istituzionale del premier. E’ un Capo dello Stato che, assumendosi personalmente la paternità dei governi («L’ho scelto io!», rivendica soddisfatto), si dichiara nel contempo sciolto da tutte le convenzioni che avevano limitato i suoi predecessori. «Non scioglierò mai le Camere!», «Non darò mai la grazia a un terrorista!», «Non varerò governi con ministri di dubbia moralità!»: e a poco a poco, con proclami come questi (non importa se non sempre seguiti da fatti), Pertini si tira fuori, non solo dalle convenzioni e dalle gerarchie del sistema, ma dagli obblighi verso i partiti che lo hanno eletto, comportandosi come se fosse espressione diretta del popolo. Lo fa, rifiutandosi di promulgare l’amnistia, e pretendendo una drastica riduzione dei reati amnistiati; o intervenendo personalmente, per bloccare lo sciopero dei controllori di volo. E poi, quasi tutti i giorni, con una sequela di esternazioni su una miriade di argomenti che vanno dal governo, alle nomine, alla speculazione ai danni delle vittime del terremoto in Belice, alla tragica vicenda di Alfredino, il bimbo morto in un pozzo vicino a Roma, alla morte di Berlinguer, la cui salma, dopo una lunga veglia, riporterà a Roma in treno. Nessuna cautela E lo stesso comportamento, esplicito, diretto, fondato sull’autorità di combattente di due guerre, terrà in politica estera, incurante delle conseguenze del venir meno delle cautele classiche della diplomazia italiana. Per due volte attacca Sharon, e dopo aver ricevuto Arafat al Quirinale, invoca una patria per i palestinesi. Poi riceve i padri missionari comboniani, e informato da loro, esprime dubbi sulla effettiva destinazione dei fondi internazionali per la fame nel mondo. Parla con i giornalisti, e dice che Jumblatt «è un cocainomane». Apprende della morte di Cernenko, uno degli ultimi leader sovietici, mentre è in viaggio in Sud America, interrompe il viaggio, e corre a Mosca. Parla più volte di campi di addestramento per terroristi italiani nei Paesi dell’Est, anche se poi si scoprirà che è una bufala di Francesco Pazienza, uno dei tanti spioni in servizio in Italia che finirà la sua carriera in galera. Sono solo alcuni esempi, di una presidenza che resterà nella storia. E che per i suoi tempi, e per una Repubblica ancora legata ai rituali partitici e parlamentari, segnano la rottura con la tradizione e la svolta verso un rapporto diretto tra l’eletto e gli elettori, tra il politico e la gente, tra le istituzioni e il popolo: ciò che vedremo, in modo assai più sgangherato, pioverci sulla testa con l’avvento del maggioritario e della Seconda Repubblica. Un modello al quale nessun Presidente, dopo Pertini, potrà sottrarsi, che porterà alla presidenza esplosiva di Cossiga, a quella paternalistica ma sussultoria di Scalfaro, e che verrà ripreso e reinterpretato da Ciampi, il terzo grande laico salito al Colle. L’elezione di Ciampi, nel ’99, matura in pochi giorni. C’è una lunga fila di candidati democristiani (a cominciare dal presidente del Senato Mancino e dal ministro dell’Interno Rosa Russo Iervolino), c’è un premier Ds a Palazzo Chigi che preluderebbe di nuovo a un cattolico al Quirinale. E c’è un accordo segreto, tra il presidente del Consiglio D’Alema e il segretario dc-popolare Marini, che prevede che al Colle andrà il secondo. Ma a far saltare l’intesa e a costruire in pochi giorni la piattaforma elettorale di Ciampi, con l’appoggio di tutto il centrosinistra e di quasi tutto il centrodestra, sarà Veltroni. Il segretario ds è convinto che l’andamento mediocre, le risse intestine e lo scontro defatigante, che hanno accompagnato la legislatura, abbiano prodotto un disamoramento dei cittadini verso la politica. C’è bisogno di un uomo nuovo, non di un professionista dei partiti, sostiene Veltroni. Per cominciare, dà appuntamento a casa sua a Fini e Casini, che subito ci stanno. Rapidamente, il discorso si allarga a Gianni Letta, che parlerà con Berlusconi. Poi c’è un incontro ufficiale tra premier e capo dell’opposizione, in cui, alla vigilia della prima votazione, il Cavaliere finalmente dice sì. Nel giro di una settimana, così, la situazione s’è capovolta. «L’ho fatto per il bene dell’Italia e del’Ulivo», scriverà imbarazzato D’Alema a Marini. E Marini: «L’hai fatto per i cazzi tuoi». Di città in città Forse proprio perché non se l’aspettava, forse perché, non essendo mai stato eletto in Parlamento ha conservato sempre, in tutte le cariche che ha ricoperto, l’abito del cittadino, Ciampi, giunto al Quirinale, volgerà tutto il suo mandato al recupero dei valori patriottici e a una missione, come una specie di peregrinazione, di città in città, di paese in paese, per convincere gli italiani che, malgrado tutto, ci sono ancora molte ragioni per credere nell’Italia. E’ un messaggio sommesso, tutt’altra cosa da quelli passionali e furiosi dei suoi predecessori. E’ fatto di parole semplici, viene da un uomo che non ha mai fatto comizi in vita sua, ed è accompagnato da un sorriso che presto farà dire a tutti di Ciampi che è diventato «il nonno d’Italia». Dopo un settennato duro, pieno di momenti difficili e anche di incomprensioni e contrasti, sia con il governo che con l’opposizione (cinque dei sette anni sono stati di non semplice coabitazione con il centrodestra), Ciampi ora è stanco e ha deciso di lasciare e di non accettare offerte di rielezione. Ai suoi più stretti collaboratori, che gli chiedevano di restare e che hanno tanto insistito, fino all’ultimo giorno, anche a costo di farlo adirare, il Presidente ha spiegato che è meglio così. I cento viaggi della sua presidenza, fino al saluto finale alla sua Livorno, lo hanno convinto che la gente, gli italiani, cominciano a riaffezionarsi all’Italia. Sono in tanti ad amarla più di quanto si creda. Mentre i politici stentano a capirlo. Ma per questo, ormai, anche Ciampi non ha rimedi. Marcello Sorgi