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 2006  maggio 07 Domenica calendario

Quirinale: elezioni del presidente/3, La Stampa, 7 maggio 2006 I Dc al Quirinale In piena epopea democristiana, le dimissioni di Segni, per «impedimento personale» che da «temporaneo» diventa definitivo, alla fine del ’64, e dopo soli due anni di mandato, riaprono in anticipo la successione al Quirinale

Quirinale: elezioni del presidente/3, La Stampa, 7 maggio 2006 I Dc al Quirinale In piena epopea democristiana, le dimissioni di Segni, per «impedimento personale» che da «temporaneo» diventa definitivo, alla fine del ’64, e dopo soli due anni di mandato, riaprono in anticipo la successione al Quirinale. La Dc non è pronta, sarebbe di nuovo pronto Fanfani, ma non ce la fa. Dopo tre sconfitte consecutive, una con Merzagora da leader, e due da candidato con Segni e Saragat, l’aretino cerca inutilmente la rivincita nel ’71. Ma Fanfani non è solo a correre. Un gran pezzo di Dc, socialisti e comunisti sono per Moro. E tra i grandi elettori, tocca al segretario del Psi, Mancini, capire per primo che nella corsa al Quirinale non si muovono solo i partiti. «Una sera a casa di Mancini - rivela Rino Formica, a lungo dirigente e ministro del Psi -, arrivarono il Gran Maestro della Massoneria Salvini, che si diceva vicino ai socialisti, e Licio Gelli, che sarebbe diventato il capo della loggia P2. Da tempo Mancini era in difficoltà, attaccato da un’odiosa campagna di stampa. Salvini gli parlò chiaramente: "Smetta di adoperarsi per Moro e vedrà che anche le sue cose andranno a posto’». L’indomani Mancini scrive sull’Avanti un articolo in cui, parlando dei «massimi vertici dello Stato» ed esaminando «la storia dei vari settennati», denunciava «strane complicità da cui sono venuti gravi pericoli e attacchi alle istituzioni». Poi decide di insistere personalmente con Moro. Grandi manovre A dividersi su Moro e Fanfani, intanto, non sono solo i democristiani. Ne discutono anche i comunisti. Berlinguer, a dire il vero, è preoccupato soprattutto di non rompere con i democristiani per cercare di evitare il referendum sul divorzio. Per questo, incontrandosi con Forlani, che come segretario Dc era schierato con Fanfani, il leader comunista si tiene sul vago. Nel frattempo, Natta, direttore di Rinascita, chiede a Emanuele Macaluso un editoriale dedicato proprio all’elezione del Capo dello Stato. «Cercai di spiegare come secondo il Pci non doveva essere un Presidente - ricostruisce adesso a memoria Macaluso, per decenni ai vertici del Bottegone -. Ma in pratica mi uscì un ritratto in negativo di Fanfani». Il giorno dopo sui giornali l’editoriale di Rinascita viene letto come un «niet» di Botteghe Oscure al candidato della segreteria democristiana, e Berlinguer, va da sé, s’infuria. «Lo vedemmo irrompere nel salone della direzione comunista, avvolto nel fumo delle sue ”Turmac’ - ricorda Macaluso -. Percorse un paio di volte in su e in giù il salone per ritrovare la calma, fumò due sigarette, una dopo l’altra, poi si rivolse a Natta: "Vorrei sapere perché a mia insaputa abbiamo preso posizione sul Quirinale"». La notte seguente, Mancini fa un ultimo tentativo con Moro, invitandolo a un incontro segreto in casa del suo amico Peppino Di Vagno. Moro è laconico. E neppure si presenta alla riunione dei gruppi parlamentari democristiani che dovevano designarlo. Quando la delegazione di Piazza del Gesù arriva a casa di Leone, ammalato, per fargli la proposta, l’interessato si schermisce. Non ci crede. Telefona a Moro, e capisce che tocca veramente a lui. La vigilia di Natale ’71, così, Leone viene eletto alla ventitreesima votazione, con soli tredici voti di scarto e una maggioranza che va dai partiti laici, alla destra missina, compresi i repubblicani. La Malfa non a caso aveva promesso di «spezzare i garretti ai cavalli di razza della Dc». Il ritorno di un non politico, o almeno non di un politico puro, al Quirinale, non poteva facilitare i rapporti tra il Colle e la Dc. Tra l’altro, mentre il centrosinistra mostra la corda, e si comincia a cercare il modo di includere il Pci negli assetti di governo, la base elettorale moderata del nuovo presidente non aiuta. Leone è un autorevole penalista (è stato il miglior allievo di De Nicola), un giurista che ha fatto carriera nelle istituzioni e qualche pronto soccorso alla guida di governi balneari o di decantazione. A parte un approccio di Togliatti, che gli offriva sostegno nel ’62 per bloccare l’elezione di Segni, il futuro quinto Presidente ha sempre militato nel centro tradizionalmente anticomunista della Dc. A segnare la sua presidenza, sono proprio questa collocazione e l’imbarazzo di non riuscire a destreggiarsi tra i due grandi partiti. A metà del mandato, quando nel 1975 Leone decide di inviare un messaggio al Parlamento per richiamare una serie di riforme urgenti, a cominciare dalla limitazione del diritto di sciopero, scende il gelo. Le Camere, dopo rapida consultazione, decidono di non discuterlo neppure. E quando, poco dopo, in piena solidarietà nazionale (l’accordo di emergenza antiterrorismo che aveva autorizzato l’ingresso nella maggioranza di governo anche del Pci), l’Espresso fa partire una campagna contro di lui, Leone quasi subito cominciò a vacillare. Gola profonda Contro il Presidente, nella storia di tangenti pagate all’americana Lockheed per la fornitura di aerei militari, c’è un’accusa tutta da dimostrare. Poiché la «gola profonda» dello scandalo sostiene che a intascare è stato un «primo ministro», indicato in codice come «Antelope cobbler», il sospetto su un Leone, «mangiatore di antilopi» (pur in una traduzione approssimativa), ci può stare. Ma prove non se ne trovano. E si scopre che a tenere i contatti con la Lockheed è stato un altro ministro, Luigi Gui, che finisce processato dalla Corte Costituzionale. La storia diventa un libro, velenosissimo, di Camilla Cederna, che attacca anche la famiglia del Presidente sotto il profilo dello stile di vita della moglie, Donna Vittoria, e dei figli. Cossiga, ancor oggi, si ribella: «Leone era un uomo per bene, onestissimo e con un forte senso dello Stato - sostiene -, come dimostra il fatto che dai giudici ebbe piena soddisfazione sui suoi accusatori. Anche i figli non facevano niente di male. Da ragazzi, erano arrivati in una reggia. E in una reggia qualsiasi ragazzo si diverte, fa festa». Per Leone (che sarà pienamente riabilitato vent’anni dopo), lo sfratto dal Quirinale arriva la mattina del 15 giugno 1978. A notificarglielo, a nome della segreteria comunista, è Paolo Bufalini, il dirigente incaricato di tenere i rapporti tra Botteghe Oscure e Colle. «Paolo gli era amico, glielo disse con dispiacere e facendo riferimento, non alla campagna contro di lui, ma al sacrificio da fare per la democrazia e il prestigio delle istituzioni», ricorda Macaluso. Il Presidente ascolta disorientato. Cerca al telefono Zaccagnini, il segretario del suo partito, e non lo trova. Poi, da solo, scrive la lettera di dimissioni e chiede di parlare in tv. Distrutto, si sfogherà con poche parole. Ora tocca a Pertini, Medaglia d’oro della Resistenza, Presidente assai innovativo di cui ci occuperemo più avanti. Il turno per la Dc al Quirinale torna nel 1985. In un’elezione facile, in cui nessuno ha niente da ridire su Francesco Cossiga, presidente del Senato e candidato del segretario democristiano De Mita. In quell’inizio di estate romana infatti, della tempesta che sta per addensarsi nei cieli della Repubblica, e li coglierà d’improvviso, sono tutti ignari. Segno del destino A distanza di tanti anni, forse è lecito trovare un filo tra le ultime due presidenze democristiane. Quella di Cossiga, che con il suo «picconamento» segnerà la fine della Prima Repubblica, e quella di Oscar Luigi Scalfaro, che guiderà il difficile passaggio tra Prima e Seconda. Per una coincidenza che sembra un segno del destino, Cossiga è forse l’uomo meglio attrezzato a cogliere le novità dei cambiamenti mondiali, a cavallo tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, e gli inevitabili riflessi interni: la caduta del Muro di Berlino, la fine dell’Unione sovietica, l’esaurimento dei partiti comunisti, a cominciare da quello italiano, che era il più grande di tutto l’Occidente con il simbolo della falce e martello. Cossiga è sardo, cugino di Berlinguer, educato in una famiglia liberale di indole ribelle. Ministro dell’Interno negli anni peggiori del terrorismo, dimissionario dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Br. Presidente del consiglio a rischio di impeachment quando si scopre che un membro del suo governo ha un figlio, Marco Donat-Cattin, ricercato dall’antiterrorismo; poi presidente del Senato. E con questa biografia, al momento dell’elezione, il nuovo presidente si presenta come un tipo particolare, un po’ anomalo per essere solo un dc, e poi curioso, anglofilo, patito delle tecnologie, amico dei carabinieri e dei militari. Dalla convinzione che le Brigate rosse abbiano radici interne, legate anche al ruolo passato di un Paese che è stato una trincea della guerra fredda, nasce a un certo punto l’idea di Cossiga di una pacificazione politica tra i partiti che hanno fatto la storia della Repubblica, coprendo anche rapporti segreti, e ai limiti della legalità, che nascevano dalla situazione internazionale, come quelli sottobanco della Dc con gli Usa e del Pci con l’Urss. Sicuramente è un progetto complicato, anche dopo la caduta del Muro e a due anni dalla fine del settennato. Che salterà per aria quando il giudice Casson, avvertito da un terrorista di destra in carcere, otterrà da Andreotti di poter indagare nell’archivio del Sismi sull’esistenza di «Gladio», una sorta di rete clandestina finanziata dallo Stato, in accordo con gli Usa, come antidoto ad eventuali invasioni sovietiche negli anni della guerra fredda. Le indagini faranno risultare Cossiga tra gli organizzatori di Gladio. E’ l’inizio dell’ultima guerra democristiana, senza esclusione di colpi. Cossiga dal palazzo del Quirinale spara cannonate quotidiane, in modo speciale sulla Dc. Il culmine, il 19 aprile ’91, è una visita dello stato maggiore democristiano - De Mita, Forlani, Gava e Mancino - al Quirinale, che si risolve in una resa dei conti senza precedenti, «a pesci in faccia», come diranno loro stessi, con il Capo dello Stato. Poco tempo dopo arriva una minaccia di impeachment da parte di Occhetto e delle Botteghe Oscure. Cossiga si dimette dalla Dc e da Presidente della Repubblica. «Sottotraccia - aggiunge Formica - c’era anche un accordo segreto, di cui ero stato tramite, tra noi socialisti e il Presidente. Craxi a tutta quell’idea della pacificazione non credeva, ma voleva ottenere lo scioglimento delle Camere un anno prima, nel ’91, per tornare a Palazzo Chigi. Ma non ci fu più niente da fare». Senza partito Dopo gli scontri di Gronchi con De Gasperi, di Segni con Fanfani e Moro, di Leone con Zaccagnini, di Cossiga con Forlani e De Mita, Scalfaro è il primo presidente democristiano a non avere il problema del partito, che ha bruciato uno dopo l’altro con i franchi tiratori i suoi candidati, Forlani e Andreotti, nelle undici votazioni che precedono la sua elezione, il 25 maggio ’92. Caduti gli ultimi «cavalli di razza», c’è Occhetto che tenta di inserirsi, proponendo candidature alternative, scelte nella società civile. Norberto Bobbio, saggiamente, fiuta l’aria e si ritira. Leo Valiani, novantenne ex capo della Resistenza, un po’ ci crede. La svolta avviene dopo la strage mafiosa di Capaci, in cui muoiono Falcone e la moglie. La Dc s’irrigidisce, la spunta Pannella che ha candidato Scalfaro come un «Pertini bianco» e riesce a farlo eleggere. La vecchia Repubblica dei partiti è stata azzerata dai giudici di Tangentopoli, dai referendum elettorali e dall’avvento del maggioritario. Nella nuova, fa irruzione Berlusconi. L’attrito tra le regole della Costituzione, di cui Scalfaro è custode, e la spinta del centrodestra guidato dal Cavaliere, è evidente. Ma Scalfaro tiene duro. E non lesinerà forzature, come il rifiuto (il famoso «non ci sto», gridato a reti unificate in tv) di piegarsi allo scandalo del Sisde, e il varo di un governo tecnico Dini, dopo la caduta di Berlusconi, pur di non accontentarlo con nuove elezioni anticipate. Comincia così una lunghissima epoca di transizione, che dura da tredici anni e non è mai finita. Marcello Sorgi (continua)