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 2006  maggio 06 Sabato calendario

Quirinale: elezioni del presidente/2, La Stampa, 6 maggio 2006 I dc al Quirinale La storia del Quirinale non si può raccontare senza ricostruire quella dei presidenti democristiani, cinque su dieci, da Giovanni Gronchi a Oscar Luigi Scalfaro, che entrano da protagonisti nel mezzo secolo di vita della Prima Repubblica e del partito che, a torto o ragione, ne costituì l’ossatura

Quirinale: elezioni del presidente/2, La Stampa, 6 maggio 2006 I dc al Quirinale La storia del Quirinale non si può raccontare senza ricostruire quella dei presidenti democristiani, cinque su dieci, da Giovanni Gronchi a Oscar Luigi Scalfaro, che entrano da protagonisti nel mezzo secolo di vita della Prima Repubblica e del partito che, a torto o ragione, ne costituì l’ossatura. Ora che son passati tredici anni dal tramonto della Dc (non dei dc, che prosperano dappertutto), forse bisogna fare un piccolo esercizio di memoria per ricordarsi come funzionava il sistema democristiano, e come sembrava fatto apposta per entrare in collisione con il Colle. Centrale per collocazione e centrista per definizione, la Democrazia cristiana aveva un dominus assoluto, il segretario, una fitta rete di correnti capeggiate da abilissimi manovrieri e l’aspirazione di rappresentare, al suo interno, l’intero universo politico italiano, «dai fascisti ai fiancheggiatori delle Br», diceva Donat-Cattin. Al centro del centro, attorno al leader pro-tempore, si raccoglievano i suoi principali collaboratori e i suoi prossimi pugnalatori. Ogni due tre anni, in una delle riunioni di routine che in genere precedevano i congressi, e si svolgevano in conventi di suore alle spalle del Vaticano, i capicorrente sancivano i nuovi equilibri, designavano il nuovo segretario, e all’insaputa di quello ancora in carica preparavano le assise per sostituirlo, magari mandandolo al governo. Illustri esterni Un potere così accuratamente costruito a corrente alternata mal si poteva conciliare con la lunga durata, sette anni, della Presidenza della Repubblica, non a caso appaltata, all’inizio, a illustri esterni, per non squilibrare gli equilibri interni dc. Ma ai primi, timidi, tentativi di autonomizzarsi dei Presidenti, i democristiani preferirono regolare la questione tra loro. Anche a spese dei segretari. Nel ’48, all’elezione del primo presidente dopo il Capo provvisorio dello Stato, a farne le spese erano stati un De Gasperi ormai in declino e il suo candidato, il conte Sforza, su cui una composita alleanza di franchi tiratori e dissidenti interni avevano fatto prevalere Einaudi. Nel ’55, alla scadenza del settennato einaudiano, toccava a Fanfani, uscito vincitore dal congresso che aveva giubilato De Gasperi. Portatore di una linea prudente, la cosiddetta «scelta di non scegliere», per non dividere un partito spaccato tra destra e sinistra, il nuovo leader aveva individuato nel presidente del Senato Cesare Merzagora, un esterno eletto nelle liste dc, l’uomo che avrebbe dovuto segnare un piccolo passo in avanti verso la presa diretta del Colle, ma senza una vera candidatura interna. Sarà la prima della lunga serie di sconfitte di Fanfani sulla strada del Colle. Nella notte tra la terza e la quarta votazione, gli sconfitti del congresso, capeggiati da Andreotti e alleati con Gonella, Togni e Pella, raggiungono un’intesa con socialisti e comunisti sul nome di Giovanni Gronchi, il presidente della Camera sostenuto dal potente presidente dell’Eni Enrico Mattei, e saldamente ancorato alla sinistra dc. E da subito, nel suo discorso inaugurale, il nuovo Presidente lascia intendere che considera superate le cautele dei suoi predecessori. Infatti, sia nei rapporti con il suo partito che in quelli istituzionali con i governi, tenterà un’accelerata, intervenendo attivamente nella formazione degli esecutivi e nei loro programmi. Gronchi non fa mistero di voler spostare l’asse politico a sinistra. Ha una condotta interventista in politica estera: convoca gli ambasciatori al Quirinale, apre alla Cina, nella crisi di Suez si schiera con l’Egitto, progetta un viaggio in Unione Sovietica che si risolverà in un mezzo fiasco e in uno scontro con Kruscev. Se il ministro degli Esteri non lo fermasse, ricordandogli che sta esorbitando, vorrebbe inviare anche una missiva riservata al presidente Usa. Chiacchiericcio Ma d’improvviso, più che l’irrefrenabile attivismo di Gronchi, è la sua vita privata che comincia a far discutere. Nell’Italia degli Anni Cinquanta, che non somiglia neanche un po’ all’America di Clinton, un chiacchiericcio insistente comincia a circondare il Quirinale. «Oggi non saprei dire quanto c’era di vero e quanto invece di malevolo e accuratamente diffuso per fargli saltare i nervi - spiega Francesco Cossiga, che all’epoca in cui sedeva sul Colle dovette fronteggiare una forte ostilità democristiana -. Ma certo le voci correvano». In una Capitale da sempre pettegola e mormorante, così, si comincia a sentir dire che il Presidente avrebbe rinunciato alla tenuta quirinalizia di Capranica, vicino a Roma, preferendo quella toscana di San Rossore, perché è lì che avrebbe in animo di farsi un «buen retiro». Poi si vocifera maliziosamente sull’uso intenso che il Capo dello Stato farebbe del vagone reale, un gadget di eredità monarchica in dotazione alla Presidenza. O si chiacchiera sul restauro di un bagno personale, al Quirinale, in cui sarebbero stati installati rubinetti dorati. Si arriva perfino ad attribuirgli un’amicizia, forse qualcosa di più, per Delia Scala, una soubrette della Rai delle origini antesignana di Raffaella Carrà. L’epilogo tormentato della presidenza sarà nei tragici fatti dell’8 luglio ’60, quando il governo Tambroni, voluto testardamente da Gronchi contro le indicazioni della Dc, riceve l’appoggio dell’Msi e trova nel Paese un’accoglienza tempestosa, con disordini e tumulti che lasceranno, sulle strade, anche morti. Intanto i centristi democristiani preparano la rivincita. Nel ’62, il loro candidato è Antonio Segni, presidente del Consiglio e capo della corrente Dorotea. Al suo fianco, ad evitare sorprese, si muove la «Brigata Sassari», un gruppo di parlamentari giovanissimi capeggiati dal sardo Cossiga e dal piemontese Sarti. Segni rifiuta perfino di essere inserito in una rosa di candidati, come vorrebbe Moro. E, avvertito che Fanfani vuol correre, con il sostegno di socialisti e comunisti (Togliatti lo comunica a Nenni che lo annota sul suo diario), si fa eleggere con una maggioranza di centrodestra. Una preoccupazione E’ il prezzo che la Dc deve pagare al suo interno alla nascita del centrosinistra. Ed è una presidenza breve, austera, silenziosa. Da giurista, Segni si interessa subito ai problemi della magistratura, presiede le sedute del Consiglio superiore, fa discutere quando invia un telegramma di approvazione a un tribunale che ha condannato un gruppo di edili per una manifestazione. Sembra solo una svista, invece è l’inizio di un timore, di una preoccupazione, forse qualcosa di più, che Segni comincerà a manifestare con le persone più vicine. «A un certo punto - ricorda Rino Formica, allora giovane dirigente socialista - quella dell’ordine pubblico per lui era diventata una fissazione». E Cossiga conferma: «Da presidente del Consiglio era stato un uomo di sinistra. Aveva fatto la riforma agraria, danneggiando tra l’altro le proprietà di famiglia. Cosa gli sia capitato a un certo punto, non so. Al ritorno da un viaggio in Francia, in cui aveva incontrato De Gaulle, Segni cominciò a dirsi ammirato del modo in cui il generale faceva funzionare la forza pubblica». Siamo ai fatti dell’estate del ’64, quando la tensione nel Paese spaventato per l’avvento del centrosinistra era al culmine, i socialisti erano usciti dal governo e Segni faticava a convincere Nenni a tornarci. Se davvero si sia trattato di un tentativo di colpo di Stato, e quanto serio, non sono riuscite ad accertarlo tre inchieste giudiziarie, una amministrativa e una parlamentare. Tre anni dopo, nel ’67, sarà il famoso scoop di Lino Iannuzzi ed Eugenio Scalfari sull’Espresso a rivelare l’esistenza del «Piano Solo», il progetto di un piano d’emergenza, una sorta di golpe che prevedeva arresti anche di personalità politiche della sinistra, e che rimane avvolto nel mistero. Alti ufficiali Di sicuro c’è che Segni, nei giorni più caldi del luglio di crisi, convoca al Quirinale, durante le consultazioni, il comandante dei Carabinieri De Lorenzo. E De Lorenzo dirà davanti alla commissione d’inchiesta che spesso il Presidente era solito rivolgersi a lui e ad altri alti ufficiali, per informarsi della situazione reale del Paese e per sapere quali erano i rimedi approntati in caso di emergenza. Quella volta, però, in piena crisi di governo, il Presidente fa uscire un comunicato sulla visita di De Lorenzo. Per Nenni, come dicono i suoi diari, è il segnale che il «rumore di sciabole», per usare una metafora, delle forze armate, serve a vincere le resistenze socialiste. Quanto a Segni, colpito da ictus poco dopo, e presto esautorato dal suo ruolo, non potrà neanche difendersi. Si chiuderà in un silenzio amareggiato, in un’agonia personale e politica nella quale solo Moro gli sarà accanto. «Moro arrivava al Quirinale ogni giorno all’alba - racconta Cossiga -. Non chiedeva nulla, non diceva nulla e si sedeva. Stava assorto e aspettava, Poi chinava la testa come se pregasse, ascoltava quel che i medici gli dicevano, salutava con un mormorio e a tarda sera se ne andava». Marcello Sorgi (continua)