Panorama 11/05/2006, Elena Molinari, 11 maggio 2006
Il giorno in cui mangiai i miei amici. Panorama 11 maggio 2006. I nostri amici non hanno più bisogno dei loro corpi
Il giorno in cui mangiai i miei amici. Panorama 11 maggio 2006. I nostri amici non hanno più bisogno dei loro corpi. Noi sì». Sono passati dieci giorni da quando l’aereo di Nando Parrado e dei suoi compagni di squadra si è fracassato contro un picco nel cuore delle Ande. Dei 45 passeggeri del Fairchild F-227 uruguayano diretto in Cile, 17 sono morti nello schianto o poco dopo. E la montagna si sta lentamente prendendo gli altri 28. Feriti e sotto shock, i giocatori di rugby della scuola cattolica Stella Maris di Montevideo si stendono gli uni sugli altri in quel che resta della carlinga per resistere ai meno 40 della notte andina. Di giorno, il sole spacca le labbra e gonfia i volti in enormi pustole. L’altitudine toglie il respiro. Ma il vero tormento è la fame. In una settimana i sopravvissuti, ventenni dei quartieri bene della capitale uruguaiana, hanno dato fondo alle scorte di cioccolato, noccioline e liquore. Ora si aggirano come sciacalli impazziti fra i rottami, frugando freneticamente fra i sedili, le lamiere e le valigie sventrate. Ma non c’è più niente, assoluta«mente niente da mangiare. O forse sì. «La mente è molto lenta nel superare certe barriere. Certo che c’era cibo sulla montagna. C’era della carne, molta carne, e tutta a portata di mano. Era vicina quanto i corpi dei morti che giacevano attorno al muso dell’aereo, sotto un leggero strato di ghiaccio». Dal momento in cui l’istinto bestiale del 22enne Parrado gli fa vedere un pasto nei cadaveri degli amici, nulla è più tabù. Persino la ferita di un compagno di squadra, si accorge con disgusto, gli risveglia la fame. Trentaquattro anni dopo aver toccato il fondo dell’inferno ed esserne risalito con le sue sole forze, Nando Parrado è il primo sopravvissuto dell’incidente aereo del 1972 a mettere la sua storia per iscritto. La vera storia dei 72 giorni passati su quel maledetto ghiacciaio è tutta in Miracles in the Andes, in uscita negli Stati Uniti il 9 maggio (Crown Publishing Group), insieme ai dieci giorni che Nando e l’amico Roberto Canossa passarono scalando vette e attraversando crepacci per 80 chilometri, fino a una vallata cilena e alla salvezza. L’epopea dei rugbisti uruguaiani, l’eroica marcia di Nando e Roberto e il ritorno alla civiltà dei 16 sopravvissuti sono stati raccontati nel 1974 da Piers Paul Read nel libro Alive, trasformato in film 19 anni dopo. Ma la testimonianza in prima persona di Parrado rivela particolari che solo chi ha convissuto per due mesi e mezzo con la morte, convinto di aver perso per sempre la sua umanità, può ricordare. Ancora oggi, a 56 anni, Parrado si sorprende della chiarezza con cui quell’idea si fece strada nella sua mente il 23 ottobre 1972: doveva nutrirsi delle membra dei suoi amici d’infanzia. Ma per farlo bisognava essere tutti d’accordo, e, soprattutto, darsi una giustificazione morale. Canossa, studente di medicina, a trovarla. «Stiamo morendo di fame» dice al gruppo raggomitolato nella fusoliera. «Se non mangiamo proteine, moriremo, e le sole proteine sono nei corpi dei nostri amici. Se non lo fate, scegliete di morire. Dio ve lo perdonerebbe? ». Ai più restii, angosciati dai dubbi religiosi, Canossa dice di pensare alla comunione. Alla fine si raggiunge un consenso e due volontari spariscono nel buio armati di pezzi di lamiera. Ritornano poco più tardi, senza dire a chi appartengano i brandelli che hanno in mano. «Mi fu offerto un pezzo e lo presi. Era grigiastro, duro come il legno e molto freddo. Ricordai a me stesso che non era più un essere umano, che l’anima aveva lasciato il corpo. Ma riuscii solo lentamente ad accostare la carne alle labbra». Per fortuna il boccone, congelato, è insapore. Nessuno ha il coraggio di guardarsi attorno, ma tutte le mani convergono quasi da sole una sopra l’altra (come prima di una partita) e le voci si uniscono in una promessa solenne: chiunque morirà potrà essere mangiato dagli altri. Solo la mamma e la sorella minore di Nando, morte nell’incidente, verranno risparmiate. Il giorno dopo, come previsto, le forze tornano e nell’orrore si fa strada un barlume di speranza. Forse i soccorsi arriveranno prima della morte per fame e per freddo. Ma l’undicesimo giorno qualcuno riesce ad allacciare i fili di una radiolina e sente un annunciatore fare i loro nomi. Le operazioni di ricerca, dice la voce gracchiante, sono state abbandonate. Per il resto del mondo sono ufficialmente morti. Il capitano della squadra, che fino a quel momento ha organizzato e rincuorato il gruppo, urla come un animale ferito. Parrado pensa al padre, che su quell’aereo maledetto aveva la moglie e due figli. «Lo vidi chiaramente rigirarsi nel suo letto, abbacinato dall’inimmaginabile perdita. E mi si ruppe il cuore dalla pena. Sono vivo, gli sussurrai. Sono vivo ». allora che dentro di lui prende forma un’idea folle: scalerà la montagna che li sovrasta così alta che fa male il collo a guardarla. Poi continuerà verso ovest dove devono aprirsi le vallate del Cile. E tornerà a casa. Da quel momento, ogni energia è divorata da un pensiero ossessivo: «A ovest c’è il Cile». Ma dove troverà la forza? Nella caduta dell’aereo si è fratturato il cranio in quattro punti, è rimasto in coma per tre giorni, è ancora debole. E non è mai salito più in alto del Pan de Azucar, la collina di 500 metri che gli uruguayani chiamano montagna. Ma la decisione è presa, e cominciano i preparativi. La notte del 29 ottobre, 16 giorni dopo la caduta del Fairchild, l’abitacolo trema violentemente. Un peso enorme crolla sul petto di Nando, sparandogli neve ghiacciata nelle narici e in bocca. Non può più respirare. «Questa è la morte, mi dissi con calma, ora vedrò cosa c’è nell’Aldilà ». Quindi sente una mano graffiargli il volto, una voce chiamarlo. Una manciata di ragazzi stanno scavando come forsennati per liberare le facce degli amici dalla slavina che li ha sommersi. Ma otto sono morti e tre metri di ghiaccio separano il rottame dall’esterno, dove infuria una tempesta. Per tre giorni i 20 sopravvissuti restano nella carlinga, tanto piena di neve che si può solo sedere con la testa fra le ginocchia e la nuca sul soffitto, i vestiti inzuppati, succhiando ghiaccio lurido. I pezzi di carne, puliti ed essiccati, sono fuori. Qualcuno allora afferra un pezzo di vetro, libera dalla neve una delle otto vittime e comincia a tagliare. «Fu un orrore. Vederlo affettare carne ancora fresca, sentire il rumore del vetro che lacerava la pelle e i muscoli. Quando mi venne allungato un pezzo, ne fui disgustato». Questa volta è soffice e unto, con strisce di sangue e di cartilagine. Da quel momento in poi la sofferenza sul ghiacciaio si fa più sordida. Ha il sapore fetido di quel pezzo di carne e avvelena l’anima con un senso di corruzione irredimibile. Il 12 dicembre Nando, Roberto e un altro compagno, Antonio Vizintin, sono pronti ad andare. Altri quattro amici sono appena morti per il freddo, le ferite e la malnutrizione, e non si può più rimandare. Hanno cucito coperte con il nylon dei sedili, fatto zaini con due paia di pantaloni e un sacco a pelo con il materiale isolante della coda. Hanno carne secca e una bottiglia in cui sciogliere la neve. La cima li guarda serena, a portata di mano. Partono. Dopo sei ore, la montagna non pare più vicina. Le scarpe da rugby sono inzuppate e gelano non appena cala il sole. La notte passa senza sonno in un avvallamento del ghiacciaio. Ci mettono tre giorni ma arrivano in vetta, semiassiderati e stremati. Antonio torna indietro. «Non ricordo di aver provato alcuna gioia. Se ci fu, svanì non appena mi guardai attorno. L’orizzonte era affollato in ogni direzione di montagne, tutte ripide e proibitive come quella appena conquistata. Capii immediatamente che non eravamo al limite occidentale delle Ande. Il nostro aereo era caduto nel mezzo». Ma al di là delle montagne, Nando si dice, c’è suo padre. «Ero sicuro che non l’avrei più visto, ma il suo ricordo mi riempì di gioia. La paura se ne andò: non avrei lasciato che la morte mi controllasse ». E allora riparte, perché deve andare, continuare a camminare, morire camminando. Il Cile è sempre a ovest. Elena Molinari