Marcello Sorgi, La Stampa, 04/05/2006, 4 maggio 2006
Quirinale: elezioni del presidente/1, La Stampa, 4 maggio 2006 la Repubblica dei Presidenti monarchici Perché lo chiamino ancora «conclave», a sessant’anni, quasi, dalla nascita della Repubblica, resterà un mistero
Quirinale: elezioni del presidente/1, La Stampa, 4 maggio 2006 la Repubblica dei Presidenti monarchici Perché lo chiamino ancora «conclave», a sessant’anni, quasi, dalla nascita della Repubblica, resterà un mistero. Cosa possa far somigliare la processione dei cardinali che invocano lo Spirito Santo al confuso arruffarsi dei mille Grandi elettori, è difficile dire. Nella politica italiana, infatti, non c’è nulla di più irrazionale della corsa al Quirinale, delle regole non scritte, dei giochi sempre aperti, della liturgia irripetibile che porta imprevedibilmente alla scelta del Capo dello Stato. Stavolta - ed è l’undicesima - la partita è cominciata in ritardo, c’è voluto un po’ di tempo per districare l’ingorgo di elezioni, nuovo Parlamento, cambio di governo e nuovo Presidente, e trovare alla fine un calendario, un ordine di precedenze, un filo di coerenza. Ma ora che la data della prima votazione è fissata all’8 maggio, sulla vigilia, come sempre, è sceso un silenzio impaurito: tacciono preoccupati candidati e Grandi elettori, si muovono di nascosto leader abilitati e king maker improvvisati, alla ricerca insieme di un metodo e di un percorso, che alla fine non è detto che troveranno. In Italia nessuno sa davvero come si fa un presidente. Già prima di cominciare, questa undicesima elezione ha messo a dura prova il «metodo Ciampi», la concordia su un uomo «super partes» da trovare con lo sforzo convergente di maggioranza e opposizione. Ha stressato l’ipotesi di rielezione del Presidente in carica. Ha visto salire e scendere l’illusione che il muro contro muro, prima o poi, porterà a un risultato. E adesso, a pochi giorni dall’inizio della partita, tanti cercano una risposta nel passato: perché se è vero che tutto deve accadere, tutto egualmente è già accaduto nella corsa al Quirinale. Un certo timore, a dire il vero, c’era già sessant’anni fa. Nella timida alba della Repubblica, retta dal fragile accordo dei sei partiti del Cln, l’avvento di una figura nuova che, sia pure «provvisoriamente», avrebbe preso il posto del re esiliato, non lasciava del tutto tranquilli i neo-padri della Patria. In cima a tutto, c’era la preoccupazione democristiana che una Repubblica nata subito forte avrebbe potuto spaventare i dieci milioni di elettori, in gran parte Dc, che nel referendum del 2 giugno ’46 avevano scelto la monarchia. De Gasperi, già prima di cominciare, puntava a una «pausa di decantazione». E anche Nenni e Togliatti non volevano rotture. Fu così che, in nome di un’ambiguità rassicurante, a presiedere la Repubblica delle origini furono chiamati, uno dopo l’altro, due capi dello Stato monarchici. Il primo, «provvisorio» ed eletto dall’Assemblea Costituente, «regnò» neppure due anni, dal 28 giugno ’46 all’11 maggio ’48. Vecchio liberale, al governo già prima del fascismo, don Enrico De Nicola, meridionale di Torre del Greco, era stato preferito a Benedetto Croce (il filosofo si era subito tirato da parte) e a Vittorio Emanuele Orlando, deluso, dopo la caduta di Mussolini, dalla decisione del re di affidare il governo a Badoglio. Nel diritto, nella cultura e nella politica, oltre che in un dignitoso quanto moderato antifascismo, i tre erano il meglio che potesse dare la classe dirigente del tempo andato, precedente alla gelata del Ventennio. De Gasperi avrebbe preferito Orlando. Togliatti la spuntò con De Nicola. Ma dal momento in cui don Enrico fu eletto, il problema di un potere non previsto, non collegato con quello, ancora informale, dei partiti, e neppure codificato dalla Costituzione, emerse in tutta la sua complicazione. Don Enrico era anziano, per quei tempi (nato nel 1877, aveva quasi settant’anni), di carattere spigoloso, non aveva mai rinunciato, fino ad a prima dell’elezione, ad una fiorente attività di avvocato. Inoltre, prima della guerra, aveva fatto un investimento sbagliato, convertendo tutti i suoi risparmi, si dice dieci milioni di lire, in buoni del Tesoro finiti in fumo. Senatore di nomina regia, già presidente della Camera, con lo Stato tuttavia aveva un suo contenzioso. Con queste premesse, come ricorda Andreotti, che già allora, a 26 anni, giovane sottosegretario di De Gasperi, frequentava per lavoro il Capo provvisorio dello Stato, la convivenza tra governo, Assemblea Costituente e De Nicola non poteva essere facile. Una volta, per dire, stava per nascere un incidente perché a un ricevimento a Palazzo Giustiniani in onore della presidentessa argentina, gli onori di casa erano stati affidati alla compagna del presidente della Costituente Terracini, Laura, che non essendo la moglie non aveva alcuna veste ufficiale per ricevere. In un’epoca assai formale, un giornale satirico romano ne aveva tratto scandalo, e De Nicola, per salvaguardare l’immagine dell’Italia, ne voleva addirittura il sequestro. Altri problemi, giorno dopo giorno, nascevano quando l’inevitabile flessibilità politica della neonata Repubblica s’infrangeva contro i rigidi argomenti giuridici del Capo provvisorio. Ad ogni proposito, De Nicola ribadiva di non avere poteri per prendere qualsiasi decisione, rinviava le firme dei provvedimenti, arrivò perfino a ratificare con una formula molto distaccata il trattato di pace con cui s’era appena chiusa la guerra e rifiutò di mandare un telegramma di congratulazioni al presidente americano Truman per non irritare i comunisti. Un’altra volta, mancò poco che finisse in un patatrac, il capo di gabinetto di De Nicola, un avvocato, manco a dirlo, che di cognome faceva Collamarini, lasciando intendere che non era soltanto una sua idea, consigliò ad Andreotti di rivedere con De Gasperi il trattamento economico del Capo dello Stato. «Così, sentito De Gasperi, feci predisporre un decreto e glielo misi nella cartella della firma - racconta Andreotti -. Se vi avessi introdotto una tarantola o una trappola da topi, avrei causato uno scatto meno impetuoso. Mi trattò malissimo, dicendo che mai avrebbe firmato un atto che lo riguardava personalmente». Ma intanto, dopo due anni di convivenza non facile (l’unico con cui De Nicola andava d’accordo era De Gasperi, che al ritorno dalla visita negli Stati uniti, con sorpresa, se lo trovò in attesa all’aeroporto), era venuto di nuovo il momento di scegliere il Presidente, quello vero, che sarebbe stato eletto per la prima volta da Camera e Senato e sarebbe rimasto in carica per il primo settennato. Per De Nicola, che nel ’46 era stato il candidato delle sinistre, non tirava aria buona. Il quadro politico, dopo le elezioni del 18 aprile del ’48, era profondamente mutato, da un lato una Dc al suo massimo storico, dall’altro, sconfitto, il Fronte popolare di socialisti e comunisti. A sentire il fido Collamarini, don Enrico si considerava il candidato naturale alla rielezione. Anche se, come per l’aumento di stipendio, non l’avrebbe mai chiesta. D’improvviso, com’era sua abitudine (lo faceva tutte le volte che perdeva le staffe o quando minacciava le dimissioni), De Nicola prima delle votazioni fece perdere le sue tracce. Lo cercarono tutti, o almeno tutti giurarono di averlo cercato, senza trovarlo. Il liberale Manlio Lupinacci pubblicò sul Giornale d’Italia un appello che sembrava un calembour: «Onorevole De Nicola, decida di decidere se accetta di accettare». Giovanni Leone, che sarebbe stato poi il sesto presidente, si ricordò che anche alla prima elezione De Nicola era sparito, e lui che si considerava il suo allievo prediletto aveva dovuto accettare a malincuore di non poterlo avere come testimone di nozze. Per qualche giorno, Leone aveva continuato a chiamare De Nicola. Ma pur venendo al telefono, e credendo di non essere riconosciuto, don Enrico rispondeva soltanto: «L’onorevole non c’è». Alla fine, disperato, Collamarini, non di sua iniziativa, nei giorni che precedevano l’elezione fece trasportare il letto personale di De Nicola da Torre del Greco al Quirinale. Il segnale era chiaro, ma nessuno ci fece caso. A votazioni iniziate, ormai, i giochi democristiani impazzavano. Un partito padrone di oltre metà del Parlamento non solo poteva, ma voleva, per marcare ancora una volta la rottura quarantottesca con le sinistre, eleggersi il «suo» Presidente. Vista la situazione internazionale, l’alleanza rafforzata con gli americani, lo schieramento di democristiani e comunisti al di qua e al di là della «cortina di ferro», il candidato di De Gasperi era il conte Sforza, ministro degli Esteri del suo governo. Toccò a lui, invece dell’elezione, fare i conti con la nascita dei franchi tiratori. E una Dc fortissima, ma spaccata al suo interno (la sinistra di Dossetti non vedeva di buon occhio l’asse di ferro con gli Usa), finì col mettere sotto il proprio leader. Al posto di Sforza, la mattina dell’11 maggio ’48, alla quarta votazione fu eletto con 518 voti Luigi Einaudi. La mattina presto, quando Andreotti, uscito da casa Sforza, era entrato a casa sua per avvertirlo della svolta, Einaudi aveva solo obiettato che, essendo zoppo, avrebbe avuto qualche difficoltà a passare in rivista le truppe. Il resto fu definito rapidamente: anche la disponibilità, che Einaudi pretese a vita, di una tenuta di campagna vicino a Roma con annesso pollaio, dei cui polli, per amore di precisione, il neo-presidente riuscì ad assicurarsi il rimpiazzo, man mano che per esigenze alimentari o per altro il numero veniva a calare. Nenni e Togliatti, battuti, ripiegarono su Orlando, che ebbe 320 voti. Quattro giorni dopo Dossetti, il vero vincitore di questa tornata, con un velenoso articolo su «Cronache sociali» s’incaricava di consegnare alla storia De Nicola e le sue fissazioni giuridiche: «L’evanescente merletto di schermaglie protocollari e un distacco per eccesso di formalismo - scriveva il capo della sinistra democristiana a proposito dell’ex-Capo provvisorio - gli avevano fatto perdere il contatto con la realtà». Liberale, anche lui ultrasettantenne (era nato nel 1874) economista, piemontese di Dogliani, allievo di Gioele Solari, amico di Croce, Governatore della Banca d’Italia e ministro del Bilancio di De Gasperi, Einaudi approdava al Quirinale sorretto da un grande prestigio culturale e internazionale. Ma anche lui avrebbe dovuto sperimentare nel settennato la durezza del potere democristiano e la difficoltà, per il presidente della Repubblica, di muoversi con autonomia. Agli ostacoli che aveva già incontrato De Nicola (creandosene peraltro di suo), si aggiungevano quelli dell’attuazione, e dell’interpretazione, di una Costituzione appena varata. Nella quale, per l’appunto, il potere del Capo dello Stato era definito con una parolina, che di lì a poco, per decenni, avrebbe fatto la gioia di generazioni di studiosi e di costituzionalisti. Se il Presidente godeva di un potere - del quale cioè non era tenuto a dar conto -, va da sé che per governo, partiti, Parlamento e potere politico, questo rappresentava un’anomalia. Come la storia del Quirinale dimostrerà trent’anni dopo, i timori democristiani per l’inquadramento, diciamo così, istituzionale del primo Presidente della Repubblica, avrebbero poi trovato qualche fondamento. Ma a quel tempo, pur essendo i dubbi assolutamente teorici, in presenza di uno Stato occupato ad ogni livello dalla Dc, servirono tuttavia a motivare una sorta di schiacciamento del Presidente: in un ruolo che lui stesso, non trovando altri termini, definì. Dalle crisi di governo, in cui quasi sempre De Gasperi succedeva a se stesso e si limitava a cambiare qualche ministro, e l’unica volta che Einaudi provò a scegliere un altro democristiano la Dc, per prendere le distanze, lo bollò come «governo amico», a leggi anche controverse, che il Capo dello Stato poteva rimandare al Parlamento solo per mancata copertura finanziaria. L’incidente più grosso avvenne a proposito della legge elettorale maggioritaria, voluta da De Gasperi per consolidare la maggioranza centrista, e osteggiata dalle opposizioni che la definivano «legge truffa». L’approvazione finale al Senato, il 29 marzo ’53, si realizzò in una seduta convulsa, tra tafferugli, botte e insulti. Siccome la votazione era stata confusa e risultavano presenti anche alcuni senatori, come il comunista Scoccimarro, che erano usciti dall’aula, l’indomani l’opposizione chiese a Einaudi di non promulgare la legge. Ma il Presidente, basandosi sul verbale ufficiale del Senato che non faceva alcun cenno ai disordini, la firmò. C’era anche Pertini, tra quelli che erano andati a trovarlo, sperando in un suo intervento: «Einaudi stette a sentire con aria di noia e non rispose», riferì il futuro primo inquilino socialista del Quirinale, descrivendo, adirato, il distacco e l’isolamento del Capo dello Stato. Eppure, in un’occasione, Einaudi decise di ribellarsi: l’occasione di scontro con De Gasperi fu la nomina a senatore a vita di don Sturzo, decisione che la Costituzione incontrovertibilmente affidava al Capo dello Stato. Sturzo era un cattolico radicale, antifascista, autonomista e aveva riparato all’estero. Per il presidente del consiglio, che non voleva averlo tra i piedi, l’ostacolo ufficiale era il veto della Chiesa, per i sacerdoti, ad assumere cariche pubbliche. Einaudi s’impuntò e, confidando nei suoi buoni rapporti con Oltretevere (gli era stata appena concessa la Croce suprema del Cristo, massima onorificenza pontificia), mandò il suo segretario Ferdinando Carbone a parlare con Papa Pio XII. Il quale, a sorpresa, diede il suo benestare. Trovandosi con il decreto di nomina di don Sturzo che recava, visibile, la firma di Einaudi, e invisibile quella del Santo Padre, De Gasperi non potè che accettare. Nelle elezioni del ’53, la «legge truffa», per poche migliaia di voti, non scattò. Tutt’insieme l’epoca degasperiana, il centrismo, e la Dc pigliatutto del ’48 cominciarono a tramontare, insieme con l’epoca dei vecchi presidenti padri della Patria. Professori entrambe, abituati a studiare e ad annotare, De Nicola ed Einaudi avevano promesso di lasciare ai loro successori appunti e consigli maturati nell’esperienza dei primi anni della Repubblica. Einaudi intitolò il suo primo libro, rimasto un classico, «Lo scrittoio del Presidente». E il secondo, che già tradiva una certa amarezza, «Le prediche inutili». De Nicola, dopo aver fatto vedere a tutti quelli che incontrava un quadernone, brandendolo come un minaccioso elenco dei peccati politici della classe dirigente, quando se ne andò dal Quirinale, lo dimenticò, o finse di dimenticarlo, su un tavolo. Ma quale non fu la sorpresa di Andreotti, quando, avendolo trovato, e aprendolo, curioso, si accorse che «le pagine erano bianche, dalla prima all’ultima». Marcello Sorgi (continua)