Vanity Fair 11/05/2006, pag.123-126 Gabriele Romagnoli, 11 maggio 2006
Il gigante felice di essere bambino. Vanity Fair 11 maggio 2006. «Maturità dell’uomo: ritrovare da adulti la serietà che da bambini si metteva nei giochi» (Friedrich Nietzsche)
Il gigante felice di essere bambino. Vanity Fair 11 maggio 2006. «Maturità dell’uomo: ritrovare da adulti la serietà che da bambini si metteva nei giochi» (Friedrich Nietzsche). Credo sia doveroso premettere che questo articolo è stato scritto a Barcellona, da uno che si è preso un aereo, una stanza d’albergo e un biglietto della semifinale di Champions League per una forma di innamoramento il cui destinatario è un calciatore di nome Ronaldinho. Per fortuna capita poche volte nella vita: la volta precedente procurò un weekend a New York per vedere il ritorno in campo di Michael Jordan. Ma quello era il passato e in amore è meglio evitare le rievocazioni. Ronaldinho, allora, ovvero: del superamento degli schemi come caso e non come necessità, e della libertà come antidoto all’individualismo. Partiamo dal Giappone. LA VIA PI BREVE. l’anno 2002, si giocano i primi Mondiali d’Asia. Nei quarti la partita più importante è Brasile-Inghilterra, che si rivelerà poi la vera finale. L’Inghilterra allenata da Eriksson ha per alfiere di cristallo Beckham. Il Brasile risponde con i dioscuri Ronaldo & Rivaldo. Non dovevamo parlare di Ronaldinho? Quello è un mezzo campione, sentenzia la critica. In Francia, dove gioca, il suo allenatore non sa bene che farsene. Anche quando comunicheranno il suo arrivo a Rijkaard, oggi celebrato allenatore del Barcellona, il commento sarà: «Dove lo metto?». La risposta giusta è: in campo. Al resto pensa lui. L’innamoramento per Ronaldinho scatta nel momento cruciale della partita con l’Inghilterra. Il punteggio è bloccato, la manovra anche. Eriksson ha schierato i suoi con un 4-4-2 di marmo. Tradotto: 4 difensori, 4 centrocampisti e 2 attaccanti allineati e fissi, visti dalla tribuna stampa sembrano la squadra di un calcio-balilla. Rispecchiano la personalità di Eriksson. Come molti uomini, è posato e incrollabile professionalmente, poi si stappa con una sessualità senza regole. Le sinuose avvocatesse e segretarie di cui si circonda sono il contraltare della rigidità di movimento dei suoi terzini. Calore a letto, glacialità nelle interviste. Fantasie, fuori del campo. A un certo punto la palla arriva a Ronaldinho, a centrocampo. Alza la testa e vede davanti a sé il doppio argine, i 4+4 di Sven Goran Eriksson. Parte, dritto per dritto. Sembra un’assurdità. Nessun allenatore approverebbe. Non si va in porta per la via più breve, occorrono triangolazioni, sovrapposizioni, movimenti senza palla che aprano corridoi. Per Ronaldinho no. Punta alla rete senza deviazioni. Lo aiuta la fissità del modulo inglese: poiché nessuno si sposta dalla linea - nessuno copre, raddoppia, arretra per frapporre un altro ostacolo oltre quello già evitato -, invece di otto uomini ne ha davanti soltanto due. Saltarli è un gioco da ragazzi, anzi da bambino, lo stesso che fa da anni. Poi verrà la Nike a riesumare i filmini super 8 e dimostrarci che è rimasto miracolosamente uguale a com’era. Nel momento in cui avanza ciondolando sulla via più breve, Ronaldinho è ancora un’eresia con le stimmate di una nuova era. Borg quando, palleggiando davanti al garage di casa, impugna per la prima volta la racchetta con tutt’e due le mani. Meucci che, stanco di scrivere lettere, si domanda: «E se telefonassi? ». un diretto che passa nella campagna inglese e va in gol. Quel che fece Maradona agli inglesi nell’86 era una necessit à, il bisogno di espressione sua e quello di rivincita di un popolo umiliato in un arcipelago superfluo. Quel che gli fa Ronaldinho è un caso, l’accensione del fiammifero dell’istinto nel buio della programmazione. Come è un caso che il neo-presidente del Barcellona perda contro il Real Madrid la battaglia per Beckham e vinca in solitudine la guerra per Ronaldinho, che nessuno vuole veramente, non sapendo dove metterlo. In effetti è un problema, perché Ronaldinho non cambia il mondo, devi cambiargli il mondo intorno. LA LIBERA REPUBBLICA DI BARCELLONA. Ora, il punto è: come infili un talento del genere in una squadra? Le crisi di rigetto sono inevitabili. Roberto Baggio giocò a Bologna il suo miglior campionato, ma depresse gli altri dieci della formazione. Perché se Nervo segnava il pubblico applaudiva, ma se Baggio andava a battere un corner delirava. E questo, all’allenatore Ulivieri, non è mai andato giù. D’altronde, la colpa fu anche sua: aveva distribuito il mansionario a tutti, fuorché a Baggio. Lo schema era 4-3-2 e 1 fa quel che gli pare. Giusto, ma fino a un certo punto. La libertà di uno a svantaggio di quella di tutti è un concetto che si addice più ai dittatori che ai fantasisti. La libertà è un concetto che si applica per estensione, non per limitazione. E a Barcellona spira un’aria di libertà, più per via di Rijkaard che di Zapatero. Ha fatto di Ronaldinho l’ingranaggio mobile di un motore a scoppio d’allegria. Un giocatore imprevedibile costringe gli altri ad aprire la mente se vogliono intuire dove gli metterà la palla. noto che i calciatori mediocri non vedono lo spazio in cui infilarla, i campioni sì. Poi ci sono quelli come Ronaldinho, capaci di trovare uno spazio che neppure dall’alto delle tribune risultava visibile e forse non preesisteva al numero dieci rossoblù. Fa come i playmaker del basket: guarda a sinistra e manda la palla a destra. Va a terra per uno sgambetto di Gattuso e si rialza. Quello Ringhio, lui gli sorride. Dietro Ronaldinho gioca il «popolo della partita viva»: Eto’o ha imparato a incrociare, Messi a suonare a tempo con gli altri. Tutto si tiene: anche Deco, Iniesta e Edmilson insieme a fare diga dietro l’attacco, loro tre che sarebbero nati per farsi fiume senza sponde. Non è un sacrificio. Il sacrificio è il calciobalilla di Eriksson. Che in questo mondo di eccessi Ronaldinho guadagni 43 euro al minuto è folle, ma non assurdo. Ne ha fatti di più Ricucci e l’unica cosa che hanno in comune è che parlano con i piedi, ma Ronaldinho si fa capire. Uno che a ventisei anni ha già vinto un Mondiale, due titoli spagnoli, un Pallone d’oro e, probabilmente, dopo il 17 maggio, una Champions League, che cosa può volere dalla vita calcistica che gli resta? Giocare per giocare per giocare. Questa è la chiave della superiorità non solo sportiva di Ronaldinho. Il filmato promozionale della Nike ce lo proietta con lo stesso sorriso dai 6 anni ai 26. Non è cresciuto per conquistare, ma per continuare a divertirsi. Ci riesce perché non cambia. Sperimenta su se stesso. Spesso non si capisce che cosa stia per fare semplicemente perché non lo sa. Se la telecamera zoomasse sul suo sguardo prima di un assist ottenuto infilando la palla tra due difensori, gli leggerebbe la scritta: «Chissà se ci passa?». Poi la sorpresa perché il trucco ha funzionato, l’esperimento è riuscito, Eto’o o Messi o un altro ha segnato. E quella gioia non tanto per il gol, ma perché la partita va avanti, si gioca ancora, finché farà buio, o una madre chiamerà per la cena. Più passano gli anni e più ci si rende conto che, dopo i sedici, gli uomini smettono di crescere. Poi, i più fanno finta che non sia così. Ronaldinho trionfalmente lo ammette. Gabriele Romagnoli