Sebastiano Messina, La Repubblica, 05/05/2006, 5 maggio 2006
Quando fanfani gettò la spugna, La Repubblica, 5 maggio 2006 «Nano maledetto non sarai eletto». Scheda nulla, decimo scrutinio per l´elezione del presidente della Repubblica, 14 dicembre 1971 La candidatura di Massimo D´Alema è dunque ufficialmente sul tavolo delle trattative
Quando fanfani gettò la spugna, La Repubblica, 5 maggio 2006 «Nano maledetto non sarai eletto». Scheda nulla, decimo scrutinio per l´elezione del presidente della Repubblica, 14 dicembre 1971 La candidatura di Massimo D´Alema è dunque ufficialmente sul tavolo delle trattative. L´unico leader della sinistra che sia uscito dal portone delle Botteghe Oscure per salire lo scalone d´onore di Palazzo Chigi potrebbe rompere, con la sua elezione, l´ultimo tabù, e consegnare alla storia la «conventio ad excludendum». E´ davvero in grado di farcela, il lìder Maximo? E´ presto per dirlo. Se ci riuscisse, però, sarebbe il primo leader politico a diventare capo dello Stato. Nessuno dei dieci presidenti della Repubblica è stato, prima dell´elezione, a capo di un partito. Salvo Giuseppe Saragat, certo, che però guidava il piccolo Psdi. Non che i capipartito non ci abbiamo mai pensato, anzi: la storia delle elezioni per il Quirinale è ricca di nomi eccellenti, da Nenni a Forlani, da Andreotti a De Martino, tutti immancabilmente finiti nell´elenco dei perdenti. Ma il vero Grande Sconfitto delle manovre presidenziali è stato Amintore Fanfani. Dalla politica, il «cavallo di razza» democristiano ebbe quasi tutto: sei volte presidente del Consiglio, cinque volte presidente del Senato, due volte segretario della Dc, undici volte ministro. E poi presidente dell´Onu, senatore a vita e presidente del partito. Ma al Quirinale no, non ci arrivò mai. Nel 1971 era lui il candidato ufficiale della Dc. «In quel momento - ha raccontato Giulio Andreotti - io ero il capogruppo dc alla Camera, e gli dissi per tempo: guarda che io ho confessato i nostri e stavolta il gruppo dovrebbe essere compatto. Però socialisti e comunisti non ti vogliono, me lo hanno detto chiaramente. A quelli ci penso io, rispose Fanfani. E scese in gara». Perché Pci e Psi non volevano l´uomo che era stato uno dei due padri dc del centro-sinistra? Perché lo temevano. Qualche tempo prima lo stesso Giorgio La Pira, il miglior amico di Fanfani, lo aveva incautamente descritto come «il De Gaulle italiano», dando involontariamente la più autorevole conferma delle ambizioni presidenzialiste dell´uomo forte della Dc. [A mettere un altro bastone tra le ruote del Professore ci pensò poi «il manifesto», ripescando gli scritti del suo passato remoto e pubblicandoli con ritmo martellante in una rubrica fissa: «Antologia fanfaniana». Erano citazioni del giovane Amintore che difendeva il superamento corporativo di un Parlamento eletto «da un ammasso indifferenziato di individui eterogenei», o delle sue filippiche contro il divorzio, «che precipita alla rovina le nazioni». Poteva, un politico così poco rassicurante per la sinistra, andare al Quirinale senza suscitare il timore di una svolta presidenzialista? Non poteva. E infatti non ci andò.] Ma furono gli stessi democristiani a bloccarlo, dopo averlo ufficialmente candidato. Al grande aretino mancarono 36 voti al primo scrutinio e altri 16 al secondo. Per smascherare i franchi tiratori, i parlamentari dc vennero divisi in gruppi. A qualcuno venne chiesto di scrivere «Fanfani» in rosso, ad altri in verde, ad altri ancora con la stilografica o con la matita, metodo che era stato perfezionato di votazione in votazione aggiungendo per scaglioni il nome di battesimo, i titoli di «professore», «senatore», «presidente» o premettendo il cognome al nome, insomma tutte le varianti possibili della preferenza fanfaniana (tecnica che non è andata perduta, come s´è visto qualche giorno fa al Senato). Fu tutto inutile. Dopo 13 scrutini a vuoto, Fanfani gettò la spugna. E aprì la strada all´elezione di Leone. Sebastiano Messina