Corriere della Sera 05/05/2006, pag.8 Francesco Battistini, 5 maggio 2006
Fanfani, Andreotti e gli altri Storie di illustri «impallinati». Corriere della Sera 5 maggio 2006
Fanfani, Andreotti e gli altri Storie di illustri «impallinati». Corriere della Sera 5 maggio 2006. Roma. Scheda del 1992: «In galera». Voto del 1964: Sophia Loren. Preferenze del 1985: Camilla Cederna (8). Candidati vari: Peppino Avolio (Confcoltivatori), Eugenio Scalfari (3 voti), il giornalista Guido Quaranta (2), un cardiologo, un neurologo... Una volta, buttarono dentro anche un mazzo di carte da gioco: «Tanto è tutto truccato». Un’altra, votarono il (troppo) giovane deputato dc Edoardo Speranza, ineleggibile, e a Pertini che scrutinava venne da ridere: « una speranza, evidentemente... Se non altro, una speranza». Candidati di bandiera e di disturbo. Candidati di stima e candidati a niente. Si riaprono le insalatiere verdi del Quirinale. Onorevole Franco Tiratore, si prepari al voto. Perché vale la storica legge di Andreotti: «Il candidato ufficiale non viene eletto mai o quasi mai: nel voto segreto c’è la reazione dei peones». Il cecchino parlamentare è pronto a sbizzarrirsi. « Agnosco stylum Romanae Curiae! », riconosco il pugnale della Curia romana, declamò il craxiano Silvano Labriola nel Transatlantico 1992: fu l’urlo di Paolo Sarpi colpito alla schiena, che non riusciva a vedere il suo assassino; era l’epitaffio su Giuliano Vassalli, candidato dal quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pli eppure affossato da 180 franchi tiratori, ineguagliato record di tradimento. Potenti e peones, quanti regicidi. Ci sono passati tutti. I grandi capi per primi: da De Gasperi ai Craxi-Andreotti-Forlani del Caf, da Nenni a Moro, non è roba da alti prelati della politica salire al Palazzo dei Papi. Nel giurassico della Prima Repubblica, 1948, cadde la nobile testa di Carlo Sforza che la Dc poteva incoronare con 483 voti di maggioranza assoluta: sostenuto da Psdi e Pli, non superò mai quota 405, segato dalla sinistra Dc che regolarmente spostò 78 parlamentari su De Nicola e poi su Einaudi. «Nano maledetto non sarai mai eletto», scrissero su una scheda contro il più impallinato di tutti: Amintore Fanfani. Un settennato d’attesa il suo, 1964-1971, scandito dal chi la fa l’aspetti. Cominciò lui, il Mezzotoscano. C’era da eleggere il successore di Segni e tra i finti Piccioni, Scelba o Taviani, era Giovanni Leone il candidato vero della Dc. Anche Leone poteva contare su 440 «amici», ma già al primo scrutinio se ne trovò 121 di meno: un accordo Fanfani-Donat Cattin-De Mita contro Aldo Moro, 132 voti che andavano regolarmente su Amintore e finirono per far passare il psdi Saragat. A Fanfani, i cecchini la resero il turno dopo, 1971, quando l’aretino era il candidato di tutta la Dc, ma si fermò a 384 voti, nove in meno di quelli che gli avevano assicurato. La sfida durò 23 infinite votazioni, ci fu un cecchinaggio anche su Moro, botte in aula fra il basista Granelli e il doroteo Carenini, la Bbc che inscenò un «ameno, mandolinistico, caricaturale » (aggettivi di Edgardo Bartoli) teatrino dei Pupi per spiegare agli inglesi le maschere della politica italiana, con la rinuncia di Fanfani e la scelta di Leone. Fratelli coltelli: Pertini che in Transatlantico elogiava gli andreottiani – «sai, Evangelisti mi ha regalato un bellissimo quadro» ”, Fanfani che schiumava rabbia e inchiodava i colleghi («beato te, a me non regala neanche i suoi voti...»). Commento di Norman Kogan, storico politico: tante imboscate «furono seguite prima con meraviglia e poi con crescente disgusto dalla parte più sensibile e attenta dell’opinione pubblica; non si sarebbero potute rivelare meglio le insufficienze dei partiti e l’inefficienza del Parlamento». Sosteneva Donat Cattin che ci sono tre modi per chiudere la strada al Quirinale: «Il pugnale, il veleno e i franchi tiratori». In fondo, la stessa cosa. Solo al provvisorio De Nicola (1947) e a Cossiga (unico scrutinio) fu risparmiato di «giocare a moscacieca coi traditori» (parole del dc Cesare Merzagora, impallinato nel 1955 da 160 alleati a favore di Gronchi, più gradito a destre e sinistre). Agli altri, il calvario del Colle non ha fatto mai mancare cadute e scherni. Segni, che la spuntò (1962) su una pioggia di schede bianche, di candidati dimostrativi come Giorgio La Pira, d’eleganti pugnalatori come il marchese Lucifero che si presentava all’urna in tight. Pertini, che passò di corsa (832 voti) allo scrutinio numero 16 epperò non si diede mai pace di un’ottantina in agguato: «Sei stato tu, vero?» tormentò per anni i parlamentari sospetti che gli capitava d’incontrare. Dicono i commessi del Senato che il vero candidato si riconosce se si dichiara «indisponibile». Ma non sempre funziona: nel 1992 c’erano due indisponibili di razza come Andreotti e Forlani, entrambi bruciati nell’elezione più lunga (46 ore e 49 minuti) che ci diede Scalfaro. Forlani poteva contare su 556 schede, ma dal quinto all’ottavo scrutinio non oltrepassò mai le 479 e fu costretto al ritiro: 77 amici-nemici che includevano i socialisti di Martelli e Formica, disposti a bocciare l’Arnaldo per mandare in liquidazione Craxi. Una maggioranza, un’epoca in liquidazione quella, col dc Giacovazzo che dichiarava candido il suo non voto all’amico Oscar (battuta immortale: «Scalfaro è un moralista senza scrupoli»). «Una volta i franchi tiratori erano più coraggiosi perché firmavano le schede» sbottò Fanfani all’ennesima trombatura. «Certe cose lei le sa bene: è un maestro», gli sibilò un giornalista. Ma scovarli non è mai stato facile, i cecchini. Capitò per caso nel 1964: uno zoom indiscreto inquadrò la scheda-siluro d’un dc, Saragat invece di Leone. La pagò il deputato? No, gl’impallinati furono tutti i fotografi della piccionaia. Cacciati, ad aspettare fuori la fumata bianca. Francesco Battistini