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 2006  maggio 01 Lunedì calendario

Ichino: l’uguaglianza va ripensata. CorrierEconomia 1 maggio 2006. Oggi è il Primo Maggio. I sindacali confederali manifestano a Locri, a Roma ci sarà il concertone dedicato ai giovani

Ichino: l’uguaglianza va ripensata. CorrierEconomia 1 maggio 2006. Oggi è il Primo Maggio. I sindacali confederali manifestano a Locri, a Roma ci sarà il concertone dedicato ai giovani. Al di là delle feste e del consueto rito nazional-popolare la verità è che il lavoro sta cambiando a grande velocità, mentre le forme di rappresentanza e di protezione del lavoro stentano a stargli dietro. Almeno così la pensa Pietro Ichino, ex sindacalista, ex parlamentare del Pci, giurista e autore di libri sul lavoro e sul sindacato che fanno discutere. Sul Corriere del 14 marzo lei ha definito il precariato una sorta di «apartheid». Usato da lei, che ha sempre misurato i toni, il termine ha destato una certa impressione. «In quell’articolo mi riferivo all’ ingiustizia di un diritto del lavoro che garantisce ad alcuni l’inamovibilità e l’intoccabilità, mentre lascia che tutto il peso della flessibilità di cui gli enti pubblici e le imprese hanno bisogno sia portato da altri: i co.co.co., i "lavoratori a progetto", i dipendenti delle aziendine di appalto di servizi. Così abbiamo lavoratori che fanno le stesse cose gomito a gomito, gli uni inamovibili e ultratutelati, gli altri totalmente privi di protezioni». Ora però la Cgil, al suo congresso di marzo, si è data l’obiettivo di estendere lo Statuto dei lavoratori a tutte le persone in posizione di «dipendenza economica». « una svolta importante e nella direzione giusta; purché ci si renda conto che estendere a tutti lo Statuto dei lavoratori così com’è non è possibile senza imporre al sistema una ingessatura insopportabile e mandare a casa centinaia di migliaia se non milioni di lavoratori». Vuole dire che per estendere la protezione a tutti occorre renderla meno rigida per tutti? «Voglio dire esattamente questo: se vorrà davvero superare l’apartheid, la Cgil dovrà fare i conti con la necessità di ripensare l’intero sistema delle protezioni. Se non avrà il coraggio e la capacità di farlo, il suo rifiuto dell’ apartheid resterà una pura declamazione retorica». Il discorso sembra riguardare da vicino anche il programma di governo dell’Unione. «Sì, anche il nuovo governo dovrà scegliere se battere la strada dello "Statuto dei lavori", che lascia intatta la vecchia disciplina del lavoro regolare ma sostanzialmente conserva l’apartheid ai danni dei "collaboratori continuativi", oppure muovere nella direzione indicata dalla Cgil, puntando alla parità di protezione per tutto il lavoro sostanzialmente dipendente; ma questo richiederebbe una riforma profonda del sistema, che la sinistra non mi sembra pronta ad affrontare». Come potrebbe essere una rete di sicurezza universale, suscettibile di applicarsi davvero a tutti? «Innanzitutto, dovrebbe essere prevista una prima fase della carriera lavorativa di tutti, nella quale la protezione della stabilità va crescendo gradualmente: se c’è più mobilità c’è anche maggiore possibilità di trovare il posto dove si dà il meglio di sé, quindi si hanno anche le opportunità migliori di guadagno e poi di raggiungere la stabilità. E poi, un po’ di incentivo a impegnarsi e a migliorare, almeno nella prima fase della vita lavorativa, fa bene a tutti». Anche nel settore pubblico? «Certo. Il concorso consente di fatto ai potenti di reclutare i loro protetti, ma non di valutare davvero l’attitudine al ruolo, che si verifica solo attraverso anni di lavoro. Qui il primo concorso dovrebbe dare sempre accesso a un contratto a termine di tre o quattro anni, cui dovrebbe seguire un altro concorso senza privilegi, aperto a tutti, per il posto stabile ». Lei, però, ha anche denunciato il rischio che i meno efficienti non riescano a uscire dalla fase dell’instabilità. «Questo è il vero problema. Ed è un problema che si pone oggi in termini nuovi e più gravi, perché nell’era dell’informatica, di Internet e della produzione immateriale le differenze di efficienza tra le persone sono enormemente aumentate rispetto a quando due terzi della forza-lavoro era fatta di colletti blu, nell’impresa di tipo fordista. Per questo occorrono un sindacato nuovo e nuove tecniche di protezione dei più deboli». Perché un sindacato nuovo? «Perché il sindacato tradizionale è nato per esprimere la solidarietà interna a un gruppo di operai che facevano tutti sostanzialmente lo stesso lavoro, dove tra il più debole e il più forte ci poteva essere al massimo una differenza di produttività di uno a due; è nato per contrattare un modello standard di organizzazione del lavoro ideato per potersi applicare a tutti». Ora? «Ora che per due terzi o tre quarti si lavora sui flussi di informazione, sulle idee, sulla realtà virtuale, nell’ambito di una stessa categoria professionale, anche di basso livello, si possono avere differenze di produttività da uno a cento. Questa è la grande sfida per il diritto del lavoro e per il sindacato di questo secolo. Quando le differenze diventano così grandi, il sindacato non può più pensare di rappresentare tutta intera la categoria nelle vecchie forme e di proteggerla con i vecchi metodi. Soprattutto, non si può più pensare di garantire l’uguaglianza con un tratto di penna del legislatore o del negoziatore collettivo ». E come la si garantisce? «Quando le differenze si fanno così grandi, l’uguaglianza non la si deve "garantire", la si deve costruire. E lo si può fare soltanto prendendo per mano i più deboli, fornendo loro un sovrappiù di informazioni e di assistenza intensiva nel mercato, orientandoli verso il percorso che offre loro le migliori opportunità, offrendo loro corsi di formazione e riqualificazione mirati a sbocchi ben selezionati, se necessario anche aumentando il raggio della loro mobilità professionale e geografica e indennizzandoli per il costo aggiuntivo che questa comporta». Molto costoso per le casse pubbliche. «Il sindacato concentri lì un po’ del suo potere rivendicativo». Questo nel mercato; e in azienda? «Anche qui una rete di sicurezza davvero capace di essere universale. Una protezione forte può e deve ancora essere offerta a tutti contro le discriminazioni e l’esercizio arbitrario del potere disciplinare; contro il licenziamento per motivi organizzativi o economici, invece, occorre pensare a una protezione che aumenti gradualmente nel tempo, con corrispondenti oneri crescenti per l’impresa». Torniamo al sindacato. Che Primo Maggio è quello di oggi? Il risultato delle elezioni apre la strada verso l’unità sindacale, o c’è il rischio che la delega al governo «amico» da parte della Cgil accentui le divisioni con Cisl e Uil? «Da un quarto di secolo, ormai, l’unità sindacale non è più all’ordine del giorno. Nessuno lo avrebbe previsto, ma dopo la caduta del Muro le distanze tra la Cgil e le altre due confederazioni maggiori, invece di ridursi, sono andate aumentando. Al massimo si può parlare di unità d’azione; ma anche questa, oggi, a che cosa si riduce? Da quando, ormai due anni fa, il nuovo presidente di Confindustria ha posto sul tappeto la questione della riforma della contrattazione collettiva, le tre confederazioni non sono riuscite a tirar fuori neppure una riga di progetto scritta in comune». Questo sul piano centrale nazionale. Però nelle categorie e nelle aziende Cgil, Cisl e Uil sono tornate dappertutto a negoziare i contratti collettivi insieme. «Si è ricomposta la grande frattura dei metalmeccanici. Ma resta aperta la questione di un sistema di relazioni sindacali nel quale non c’è un pluralismo vero. Quando si riesce a contrattare insieme, i problemi restano quiescenti; ma quando i dissensi non sono sanabili, il sistema si paralizza ». Però nel 2001 e nel 2003 Cisl e Uil hanno potuto rinnovare il contratto dei meccanici anche senza la Cgil. «Hanno potuto farlo solo perché hanno ritoccato al rialzo qualche parametro precedente; ma non avrebbero potuto riscrivere il contratto senza la Cgil; e non avrebbe potuto farlo neppure la Cgil senza Cisl e Uil, perché il quadro istituzionale attuale di fatto lo impedisce. Invece l’economia italiana avrebbe enorme bisogno di un vero pluralismo sindacale, che consentisse anche il confronto di modelli di sindacalismo diversi, in funzione della sperimentazione di modelli di organizzazione del lavoro diversi». Oggi non si possono sperimentare modelli di organizzazione diversi? «I nostri grandi contratti collettivi nazionali, a cominciare da quello dei meccanici, con i loro sistemi di inquadramento professionale fatti di centinaia di disposizioni anche minuziosissime, sono rimasti uguali a se stessi per 35 anni. Nel frattempo è cambiato tutto; e tutto continua a cambiare; ma chi vuole impiantare un’impresa di medie o grandi dimensioni in Italia deve ancora inderogabilmente applicare quelle disposizioni». Come se ne esce? «Le confederazioni maggiori dovrebbero accordarsi almeno su una cornice di regole generali in materia di rappresentanza nei luoghi di lavoro e contrattazione che consenta al sistema di relazioni industriali di funzionare anche quando i dissensi sono insuperabili. forse questo il massimo di "unità" a cui si può puntare oggi; e non sarà comunque facile ». Torniamo al discorso sulle nuove tecniche di protezione. Dobbiamo dire addio al contratto nazionale? «No, il contratto nazionale resta necessario, in un tessuto produttivo che per due terzi non conosce la contrattazione collettiva aziendale. Ma se vogliamo che quel tessuto sia più aperto alle opportunità di innovazione che provengono dal mondo intero, dobbiamo consentire che almeno la parte non retributiva del contratto nazionale possa essere modificata e anche integralmente sostituita dalla contrattazione aziendale ». Può fare un esempio? «L’industria automobilistica giapponese ha costruito le sue fortune sul cosiddetto "modello toyotista" di organizzazione del lavoro; è stato esportato in tutto il mondo: gli anglosassoni lo chiamano lean production ; solo da noi non è praticabile». Perché? «Perché è incompatibile con il sistema di inquadramento professionale stabilito dal contratto collettivo nazionale, che è rimasto del tutto immutato dal rinnovo del 1972. Ma un sindacato che voglia rappresentare e tutelare il lavoro in tutte le sue nuove forme dovrebbe anche incominciare ad assistere i propri rappresentati nella scelta tra assetti diversi della struttura retributiva e nella relativa contrattazione con la controparte ». Chiarisca meglio. «Un lavoratore o un gruppo di lavoratori può preferire un reddito più sicuro, a costo di avere minori possibilità di guadagno. Un altro può essere disponibile a una parte fissa della retribuzione più bassa, in cambio della possibilità di guadagni molto maggiori se le cose andranno bene. Il sindacato dovrebbe offrirsi ai propri rappresentati, in ciascuna azienda, come una sorta di "intelligenza collettiva" capace di valutare la qualità del progetto proposto dall’imprenditore, la qualità dell’ imprenditore stesso; e se la valutazione è positiva, quel sindacato dovrebbe poter costituire lo strumento della scommessa comune su quel progetto». Questo oggi non può avvenire? «Può avvenire solo nei limiti di quel 5 o 10% del monte salari che è lasciato variabile dal contratto nazionale. Davvero troppo poco ». Questa flessibilizzazione della disciplina collettiva nazionale, però, sembra che oggi non la voglia nessuno: neppure la Confindustria. «Perché gli apparati fanno fatica a ripensare il proprio ruolo; e fanno resistenza a una redistribuzione dei poteri al proprio interno. Ma le idee si scavano la loro strada, anche contro la volontà degli apparati». Previsioni sui tempi dello scavo? In riferimento al suo ultimo libro pubblicato da Mondadori «A che cosa serve il sindacato», D’Alema le ha scritto «sei troppo avanti». «Quando, nel 1982 proposi l’abrogazione della regola dell’avviamento al lavoro secondo le graduatorie degli uffici di collocamento, l’abolizione del monopolio pubblico di quegli uffici, l’introduzione delle agenzie di lavoro temporaneo, mi presi da tutti del visionario; apparati sindacali e ministeriali compatti fecero muro contro quelle idee; ma nel giro di pochi anni, tra il 1991 e il 1997, tutte quelle riforme sono state fatte. Oggi, poi, nella Rete le idee circolano e maturano molto più rapidamente di vent’anni fa». Chi auspica come prossimo ministro del Lavoro? «Di primo impulso direi Pierpaolo Baretta, l’attuale numero 2 della Cisl; ma non vorrei che questa designazione da parte di un eretico come me gli creasse qualche problema. Un altro che vedrei benissimo a via Flavia è Innocenzo Cipolletta». Dario Di Vico