La Repubblica 03/05/2006, pag.50-51 Dario Fo, 3 maggio 2006
La verità su Ciullo Il Giullare. La Repubblica 3 maggio 2006. Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del popolo minuto, uno dei testi primi del teatro parodistico-grottesco-satirico, è Rosa fresca aulentissima di Ciullo - o Cielo - d´Alcamo
La verità su Ciullo Il Giullare. La Repubblica 3 maggio 2006. Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del popolo minuto, uno dei testi primi del teatro parodistico-grottesco-satirico, è Rosa fresca aulentissima di Ciullo - o Cielo - d´Alcamo. Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo testo? Perché è il testo più mistificato che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato è sempre stato il modo di presentarcelo. Al liceo e al ginnasio, quando ci propongono quest´opera, di fatto ci propinano una vera e propria truffalderia. Prima di tutto ci fanno credere che si tratti di un testo scritto da un autore aristocratico, probabilmente un letterato-poeta alla corte dell´imperatore Federico II di Svevia che, pur usando il volgare, si è dimostrato talmente dotato da riuscire a tramutare "il fango in oro". Egli ha trasformato un tema bassamente triviale, una situazione rasentante l´osceno, come il dialogo che prelude a un amplesso d´amore carnale, in una poesia sublime e "culta", propria della "classe dominante". (...) Il poeta di alta conoscenza e livello morale può trovarsi anche a sguazzare nel fango, ma ecco che gli basta fare ricorso al proprio lirico afflato e, un, due, un saltello, uno zompo fantasticante. ecco che si libra nell´aria come un airone leggiadro, miracolo della classe. Invece, il giullare uso a esibirsi sui banchi dei mercati può prendere rincorse a spaccafiato, sgambarsi, sbattere braccia a mulinello. Sflam! ricade immancabilmente nella melma maleodorante da cui nasce e prende linfa. Ma a buttare all´aria tutta questa bell´impostazione ecco spuntare all´improvviso due sciamannati spaccatutto, nel senso cordiale naturalmente del termine, un certo Toschi e un altro che si chiama De Bartholomaeis; notate bene, due studiosi di formazione cattolica, oltretutto. Costoro hanno combinato una vera e propria carognata, cioè hanno dimostrato che il "contrasto" in questione è un testo straordinario, ma opera di un giullare di estrazione e cultura popolare. Come? Ecco qua, basta analizzare con attenzione l´impianto dell´opera e scopriremo che chi parla è proprio un giullare, ovvero il classico buffone dei mercati. Il giullare si presenta nei panni di un gabelliere, più precisamente di un personaggio che come professione si preoccupa di ritirare la tassa, che permette di metter banco nei mercati. Anticamente a questi gabellieri si appioppava un soprannome piuttosto curioso: li si chiamava gru o grue, il noto fenicottero trampoliere. Perché? Per il fatto che tenevano un libro, un registro, attaccato a una coscia con una cinghia e quando dovevano ritirare i soldi per segnare l´introito incassato dai vari mercanti si ponevano in questa posizione piuttosto curiosa (solleva una gamba, appoggiando il piede al ginocchio della gamba ritta), appunto come le gru e tutti i fenicotteri in genere, così poteva comodamente sollevare il gonnellone e scoprire il registro sul quale andava scrivendo. Ora questo gru o grue si trova a dichiarare il suo amore appassionato a una ragazza affacciata a una finestra. E come il giovane, nascondendo il libro che ha sulla coscia con una falda della sottana, si fa credere nobile e ricco, così anche la ragazza dal verone inventa, truffaldina, di essere la figlia del proprietario del palazzo. In verità si tratta di una ragazza a servizio in quella casa, la classica servetta. Da cosa lo si intuisce? Da un sonetto ironico recitato dal corteggiatore che così si esprime: «Di canno [da quando] ti vistìsti di maiùto [vestita di maiùto, di saio] bella, da quello jòrno so´ ferùto [ferito]», cioè la ragazza appare vestita di telo di juta, abbigliamento classico delle sguattere, delle lavandaie. Il gabelliere gabba la ragazza ricordandole evidentemente d´averla veduta sciacquare i panni nella posizione assisa, coi glutei all´aria frementi dallo sbattere nel risciacquo, classica azione che innamora alla follia i fortunati transitanti a tergo. Ora conosciamo la collocazione sociale dei due personaggi: la ragazza che millanta la propria posizione aristocratica e il giovane che fa altrettanto. Il ragazzo declama: «Rosa fresca aulentissima ch´apàri inver´ la state». linguaggio aulico, raffinato, volutamente caricato per far intendere che il giovane sta inventandosi, spudorato, una propria origine aristocratica. «Rosa fresca aulentissima ch´apàri inver´ la state, e le donne te disìano, pulzèll´ e maritate». Cioè, sei talmente bella figliola, che tanto le fanciulle che le maritate vorrebbero fare l´amore con te. Per non parlare delle vedove! Ma dico, è una pazzia! Ma pensate voi, a scuola, il povero professore che dovesse spiegare il dialogo così come appare in superficie (con tono professionale): « normale ragazzi. nel Medioevo le donne s´accoppiavano tra di loro con molta facilità». Gli arriva un pernacchio misto a risate a non finire e viene cacciato, spedito a insegnare in Libia da Gheddafi. Ecco perché il povero insegnante, che fra l´altro "tiene famiglia", è costretto a mentire. Attenti però, trovandoci noi davanti a una giullarata, non dobbiamo mai dimenticarci dei lazzi a ribaltone che il fabulatore esibisce sempre in giochi di doppio senso, spesso scurrili. Quindi declamando "rosa fresca aulentissima", siamo sicuri che il corteggiatore alluda proprio alla ragazza? Il verso termina con "ch´apàri inver´ la state". Ma quando mai la rosa fresca e profumata fiorisce nell´estate? Semmai in primavera. Nel caldo solleone la rosa si spampana! E allora a che razza di rosa si allude? E "la state" significa proprio l´estate? No, il giullare nei panni del grue ha sollevato il gonnellone che, guarda caso nell´antico linguaggio siciliano si chiamava proprio astati, cioè una gonna composta da tante "aste di stoffa". Quindi, quel bocciolo di rosa che spunta da "sotto il sottano" è un fiore di ben altra origine e consistenza. Ohh!, ecco svelato il gioco satiresco. Invero, la preoccupazione di correggere la verità nasce già al momento di decifrare il soprannome dell´autore; infatti viene quasi sempre citato nei testi di scuola non come Ciullo d´Alcamo, ma come Cielo d´Alcamo. Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine "ciullo". Senza voler fare della scurrilità gratuita, "ciullo" allude correttamente al sesso maschile. Anche ad Alcamo, sopra Palermo, ha il medesimo significato. Provate a recarvi in quel paese ad apostrofare il primo abitante che incontrate con "Ehi, testa di ciullo!": vi arriva una mazzata in fronte che vi stende secchi! Quindi, per evitare equivoci di sorta, vi ribadisco che Ciullo d´Alcamo significa "sesso maschile d´Alcamo". Tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine deve essere subito modificato e naturalmente il professore dice: «C´è un errore!» In aiuto degli insegnanti sono giunti alcuni ricercatori che hanno fatto carte false per indicare un´altra lettura. Prendere per buono un soprannome tanto scurrile significava accettare che il Ciullo in questione fosse sicuramente un giullare; infatti quasi tutti i giullari nel Medioevo si fregiano di epiteti scopertamente triviali. Abbiamo "Salsiccia tronfia", "Ganassa scassa natiche", fino ad Angelo Beolco Pavan, detto "il Ruzzante" che a nostro avviso si può ben definire "l´ultimo dei giullari". Il suo soprannome viene da "ruzzare". Qualcuno che è di Padova o delle vicinanze, sa che "ruzzare" significa "andare con gli animali". Ma in che senso "andare"? Ce lo svela un erudito che così si esprime: «Ruzzante è colui che s´accompagna agli animali non per andarci a passeggio ma per accoppiarsi ad essi nei tempi e nei modi preferiti dai medesimi». Non si è mai capito se i medesimi siano i ruzzati o i ruzzanti. Ma sono particolari di poco conto. Dunque, non si può dire "ciullo". Non si può, in una scuola come la nostra, dove l´ipocrisia e la morbosità si manifestano ancora, salvo eccezioni, fin dall´asilo. Dario Fo