Onda n. 19 2006, 3 maggio 2006
«Se nel primo film avete parlato di un uomo diventato papa, adesso, a parer mio, dovreste parlare del papa rimasto uomo»
«Se nel primo film avete parlato di un uomo diventato papa, adesso, a parer mio, dovreste parlare del papa rimasto uomo». Detto, fatto. Raccogliendo l’illustre parere di monsignor Leonardo Sandri, sostituto della Segreteria di Stato, il produttore Pietro Valsecchi e il pool di autori di Karol, un uomo diventato papa, andato in onda l’anno scorso su Canale 5 con ottimi ascolti, hanno titolato l’inevitabile sequel in maniera speculare: Karol, un papa rimasto uomo. Che comincia dove finiva la prima parte, con l’elezione al soglio pontificio del cardinale polacco Karol Wojtyla, per concludersi la sera del 2 aprile 2005, con immagini di repertorio delle migliaia di persone che in piazza San Pietro pregano e piangono per il papa che muore. Quella stessa piazza da cui era iniziato, 28 anni prima, un pontificato segnato da sfide e viaggi che la fiction racconta a grandi linee. Nella prima parte, dall’elezione ai primi anni Novanta, Karol Wojtyla è ritratto come un papa pieno di salute e coraggio. Per i suoi discorsi sulla libertà di fede e i diritti umani e la sua provenienza (è polacco), si scontra ben presto con il potere sovietico, che trama un attentato contro di lui e lo commissiona a un terrorista turco, Ali Agca. Ma sopravvive per miracolo e si riprende bene, tanto da ributtarsi a capofitto nell’azione pastorale. Nella seconda parte, la sua salute si fa sempre più precaria e le sue sofferenze si mischiano con le ferite di un’umanità alle prese con guerre, carestie, povertà; l’alba del nuovo millennio lo vede ormai infermo, ma sempre pronto a spendersi in viaggi e parole, finché la morte lo coglie proprio quando, dopo l’ennesimo ricovero in ospedale per una crisi respiratoria e la conseguente tracheotomia, ha ormai perso la voce. La miniserie televisiva, in due puntate di 100 minuti ciascuna, girata in lingua inglese in tre location diverse (Roma, Africa, Andalusia), prodotta dalla Taodue di Valsecchi e da Mediaset, ha come protagonista Piotr Adamczyk ed è interpretata, tra gli altri, da Michele Placido (il medico personale del papa, dottor Buzzonetti), Daniela Giordano (suor Tobiana, una delle religiose che lo accudiscono), Adriana Asti (Madre Teresa di Calcutta). La scelta stilistica del regista, Giacomo Battiato, che ha curato anche la sceneggiatura con Monica Zapelli e Gian Mario Pagano (con la consulenza del vaticanista Gianfranco Svidercoschi), è trasparente: commuovere per edificare. Karol Wojtyla/Piotr Adamczyk - una notevole prova di immedesimazione, la sua - è un papa fascinoso che abbraccia, consola, rimprovera, piange, scherza. Soprattutto soffre, soffre tanto («Se dovessi dare un sottotitolo, direi ”Il papa del dolore”», ha detto il regista). La colonna sonora, firmata da Ennio Morricone, enfatizza gli snodi del racconto. piuttosto difficile, in un prodotto del genere, rintracciare il senso del mistero, la solitudine e i tormenti di un uomo diventato papa - o di un papa rimasto uomo -, la sua fatica di coniugare potere e santità, ragione e fede. Non a caso, è del tutto assente la figura di quel Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, che è stato fondamentale nel pontificato di Wojtyla. E che era presente, invece, all’anteprima mondiale il 30 marzo scorso, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, nella sua nuova veste di papa, per elogiare sobriamente il film e ricordare il suo predecessore: «Lo scorrere delle immagini ci ha mostrato un papa immerso nel contatto con Dio e proprio per questo sempre sensibile alle attese degli uomini. Il film ci ha fatto idealmente ripensare ai suoi viaggi apostolici in ogni parte del mondo, ci ha dato modo di rivivere i suoi incontri con tante persone, con i grandi della terra e con semplici cittadini, con illustri personaggi e persone sconosciute». Benedetto XVI ha sottolineato il legame particolare con Madre Teresa di Calcutta e poi l’attentato del 13 maggio 1981, uno dei capitoli più emozionanti della fiction. «Dall’insieme - ha continuato papa Ratzinger - è emersa la figura di un instancabile profeta di speranza e di pace, che ha percorso i sentieri del globo per comunicare il vangelo a tutti». A impersonarlo è ancora una volta l’attore polacco Piotr Adamczyk, 35 anni. Come affronta un attore, anche tecnicamente, una sfida del genere? «Fin dal primo film, assieme con Giacomo Battiato, ho deciso di non imitare mai, ma di interpretare sempre. Così non ho tentato di studiare gestualità, movimenti, sguardi del papa. Copiare un personaggio ancora così presente nel ricordo significava fallire in partenza. La storia di Karol, invece, doveva essere raccontata dall’interno dell’uomo, anche quando diventava papa. Certo, mi sono documentato quanto potevo, ma la preparazione tecnica non era tutto. Desideravo soltanto essere uno strumento del ricordo per lo spettatore, non certo il sosia di Wojtyla». Giovanni Paolo II è stato anche il rappresentante della religiosità e dello spirito del popolo polacco. Si è sentito anche lei investito di questa responsabilità? «Sì e no. Giacomo Battiato ha sempre voluto che io e Dariusz Kwasnik (nel film è don Stanislao Dziwicz, il fedelissimo segretario del papa, ndr) esprimessimo il più possibile la nostra ”polacchità”, che ovviamente ci veniva facile. Questo è stato importante soprattutto per il primo film, ambientato in Polonia. E infatti quella pellicola è stata molto importante per i polacchi. Ha addirittura cambiato i rapporti tra la mia gente e il resto del mondo: ora è come se tutti ci conoscessero meglio, perché hanno visto un pezzo importante della nostra storia. Nel secondo film abbiamo messo in scena la storia del mondo, vista attraverso gli occhi di un papa polacco. Un punto di vista il più umano possibile». C’è stata una scena che ha trovato particolarmente difficile o emotivamente drammatica? Qualcosa che l’ha toccato anche come persona? «Le scene coinvolgenti sono molte, ma ricordo soprattutto il momento in cui il papa perde la voce. Ci ricordiamo tutti quando non riuscì a pronunciare la benedizione Urbi et Orbi (il giorno di Pasqua, il 27 marzo 2005, ndr). Non pensavo nemmeno di riuscire a girare quella scena, perché ne sentivo la drammaticità violenta, addirittura eccessiva. Tanto che tentai di convincere Giacomo a non girare l’episodio. Il regista, però, risolse la situazione mostrando la scena non dalla finestra, ma dalla linea visiva di don Stanislao, che stava alle spalle del papa. Un espediente che ha consentito di abbassare l’eccessiva drammaticità della situazione». Anche Giacomo Battiato, 63 anni, regista di lungo corso (La Piovra episodio 8 e 9, Il giovane Casanova, Il segreto di Thomas), ha vissuto molto intensamente questa esperienza. Girare un film con tematiche così fortemente religiose ha cambiato la sua visione del mondo? «Anche se la mia formazione è cattolica (ho fatto le scuole al Leone XIII di Milano, retto dai gesuiti), mi sento laico. Però, devo ammettere che girare questo film mi ha fatto vedere in maniera diversa la religione. Non la considero più come un oppio dei popoli o come una sorta di superstizione, ma credo che sia una forza necessaria per incanalare il bene, per indicare una strada alla volontà di bene che moltissime persone possiedono». Questo secondo episodio della vita di Wojtyla può considerarsi un successo annunciato, data la grande aspettativa. Avere gli occhi così puntati addosso è stato uno stress in più? «Ero angosciato, soprattutto quando mi sono accorto di quanto fosse grande il tam-tam mediatico e l’attesa da parte del pubblico. Però ho sempre cercato di essere sereno, di proseguire ciò che avevo iniziato con il film precedente. Per me, ma credo anche per Piotr, era importante non perdere di vista il fatto che la nostra storia era quella di un uomo che diventava papa e che per questo aveva la possibilità di confrontarsi, più di molte altre persone, con i dolori del mondo». Il fatto che quest’uomo fosse un papa, tra l’altro amatissimo, non ha rischiato di farvi cadere nella mitologia del personaggio? «Spero di no. Non ho mai voluto fare un’agiografia, né tanto meno nessuno me l’ha richiesta. Mentre stavo per decidere se fare o meno il primo film, avevo chiesto al Vaticano se c’erano cose che volevano far vedere di più o di meno, episodi della vita di Karol Wojtyla da mettere in risalto oppure no... Mi giunse un biglietto del papa, dove c’era scritto più o meno così: ”Io faccio il papa, lei il regista. Come posso insegnarle il modo migliore per raffigurare il suo personaggio?”. Queste parole mi convinsero definitivamente ad accettare l’incarico. Dopo tutto, io filmavo la vita di uno che voleva diventare attore e scrittore, che voleva sposarsi, formare una famiglia, avere figli... Poi, la sua vita è cambiata del tutto. Questo era l’aspetto che più mi intrigava». Nessuna agiografia, quindi? «No. Le rispondo con un aneddoto polacco, tanto per rimanere in tema. Un giorno, un pittore fu incaricato di dipingere una crocefissione. L’idea di dover fare un quadro così importante lo spaventò, tanto che cadde in ginocchio a pregare. Gli apparve Gesù che gli disse: ”Devi dipingermi nel migliore dei modi. Perciò è meglio che ti alzi: non puoi farlo da inginocchiato”». Inizialmente programmata per il 2 e 3 aprile, nel primo anniversario della morte di Karol Wojtyla, ma poi slittata – tra qualche polemica – per la coincidenza con il duello preelettorale Berlusconi-Prodi su Raiuno, la miniserie andrà in onda il 10 e 11 maggio su Canale 5 in prima serata. L’anno scorso raccolse ben 13 milioni di spettatori. Facile prevedere un bis.