La Stampa 01/05/2006, pag.29 Glauco Maggi, 1 maggio 2006
Borsa, cade anche il mito del lungo periodo. La Stampa 1 maggio 2006. Con il Mibtel attorno a quota 29
Borsa, cade anche il mito del lungo periodo. La Stampa 1 maggio 2006. Con il Mibtel attorno a quota 29.570 a fine aprile del 2006 il «lungo termine», come parametro per giudicare le strategie di investimento in azioni, ha tagliato in Italia il traguardo dei sei anni. Partito da base 10.000 nel 1994, l’indice telematico della Borsa italiana era arrivato a un massimo di circa 35 mila nel marzo del 2000, prima di inabissarsi come le altre piazze internazionali colpite dalla nota bolla tecnologica. Chi avesse comprato un fondo indicizzato alle azioni italiane a quella quotazione confidando di guadagnare, come suggeriscono di fare i promotori, in un’ottica di lungo termine, si troverebbe oggi ancora sotto la soglia della parità. Che in un orizzonte temporale «lungo» le azioni battano i titoli di Stato è insomma una «legge» statistica bisognosa di continui aggiornamenti e verifiche storiche. Ora si sa che, per Piazza Affari, e limitandosi ai due ultimi decenni in cui la Borsa ha assunto una certa importanza per i volumi scambiati grazie alla partecipazione popolare data dall’avvento dei fondi comuni e dalla stagione delle privatizzazioni, sei anni non bastano per garantire che le azioni, parlando ovviamente di media del mercato, siano un investimento «sempre» più redditizio di quello in titoli di Stato. Inutile cercare di prevedere quando sarà raggiunto ancora il tetto dei 35.000 punti: bisogna solo aspettare, e ricordarsi comunque poi che, riagguantato quel livello, occorrerà tener conto degli interessi sicuri che sarebbero stati incassati con l’investimento alternativo (dal 2000) in Bot o Btp prima di considerare colmato davvero il gap del rendimento della Borsa italiana rispetto ai titoli obbligazionari pubblici. Per avere lumi su quale possa essere la «magica anzianità» che conferisce a un mercato la qualità di battere i bond statali ci si deve allora rivolgere a Wall Street. L’America è una piazza dove la pratica degli scambi e degli investimenti azionari è plurisecolare, e così anche le statistiche delle sue performance. Da uno studio dell’economista Jeremy Siegel della Wharton School presso l’Università della Pennsylvania, pubblicato nel suo libro «Stocks for the Long Run» (Azioni per il lungo termine), si deve prendere atto che il concetto del «lungo periodo» è fondato, ma che il lungo è in realtà «lunghissimo», certo più lontano di quanto si legge anche sui prospetti di tanti fondi azionari. Siegel ha analizzato 200 anni di fortune e sfortune di Wall Street, dal 1802 al 2001, ricavando, nei vari periodi di tempo nei quali un investitore ha mantenuto il suo investimento in Borsa, quante volte le azioni hanno superato i bond senza rischio. Chi ha tenuto le azioni per un anno ha battuto i Bot americani nel 61,5% dei casi; chi due anni nel 65,3%; chi cinque anni nel 74%; chi 10 anni nell’80,1%; chi 20 anni nel 94,5%; chi 30 anni nel 97,1%. Prendiamo per buono ciò che, notoriamente, va considerato una forzatura, ossia che il passato possa essere assunto come una lezione o un modello per il futuro: d’altra parte è l’unico punto di riferimento possibile essendo ciò che è successo nella realtà ai trisavoli, ai bisnonni e ai nonni degli investitori di adesso. Le percentuali esposte ci dicono dunque che, quando si pensa ai cinque anni come ad un periodo di pazienza già significativo per garantirsi di far meglio dei Bot, si pecca di ottimismo: si spera cioè di non essere uno di quel 26%, che significa più di uno su quattro, a cui è capitato il contrario. Ma anche il decennio, periodo che la pubblicistica commerciale dei fondi assicura essere un tempo di garanzia sufficiente per investire in ogni genere di fondi azionari, anche i settoriali che sono i più volatili, rischia di dare risultati deludenti: così è stato, in passato, per ogni investitore su cinque. Venti anni bastano? Dipende, bisogna non avere la sfortuna di trovarsi in quel 5,5% a cui, effettivamente, è capitato di trovarsi sotto il rendimento dei bond pubblici nel corso dei due secoli precedenti. Soltanto i periodi di 30 anni offrono, con il minimo del 2,9% di insuccessi, non già la certezza matematica del 100% ma quella che i tecnici presentano come percentuale «di sicurezza statistica», oltre il 97%. Gli investitori devono insomma essere più preparati di quanto forse non lo siano a dare tempo al tempo. Tokyo, per chi fosse entrato nel 1990, è un esempio eloquente: oggi l’indice è circa la metà di allora (vedi grafico). Solo i risparmiatori giovani che si rivolgono ai fondi pensione individuali a scopi previdenziali trovano in questi numeri una conferma della bontà della scelta dei portafogli azionari, purché internazionali e largamente diversificati. Ma soprattutto è l’abbinamento del principio del lungo termine con quello dell’acquisto periodico e automatico delle azioni nei piani di accumulo (che «costringe» ad entrare anche ai minimi) a costituire la ricetta potenzialmente più valida per contrastare i «letarghi» delle Borse. E quanto agli strumenti, sotto l’aspetto commissionale gli Etf e i fondi indicizzati sono più a buon mercato dei fondi attivi. Glauco Maggi