Renato Ruggero, 2 maggio 2006
So bene, per esperienza diretta, che il commercio internazionale e i negoziati che lo regolano hanno sempre suscitato scarsa curiosità nell’opinione pubblica italiana
So bene, per esperienza diretta, che il commercio internazionale e i negoziati che lo regolano hanno sempre suscitato scarsa curiosità nell’opinione pubblica italiana. Gli stessi operatori economici del nostro Paese hanno manifestato un’attenzione marginale all’argomento e alle sue implicazioni sempre più politiche, salvo scoprire, con un ritardo talvolta di anni, gli accordi stabiliti e gli effetti negativi di quei negoziati per alcuni settori (penso al tessile e alle calzature). Disattenzione che si ripete ora anche per le poco incoraggianti prospettive del Doha round. questo il nome che identifica l’ottavo negoziato commerciale multilaterale, ormai nella sua fase finale, che si propone la ulteriore liberalizzazione di beni e servizi a livello mondiale, nel quadro dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). Il negoziato è iniziato nel 2001 a Doha, capitale del Qatar, e vi partecipano 149 stati le cui decisioni saranno prese, come sempre accade nella Wto, sulla base del consenso. Il 30 aprile avrebbe dovuto aver luogo a Ginevra una riunione a livello ministeriale dedicata ad aprire la via ai necessari compormessi finali del Doha Round. Ma la riunione è saltata poiché la distanza delle posizioni negoziali è apparsa troppo grande. Il calendario politico è molto rigido in particolare alla data del luglio 2007 quandio scadrà il mandato conferito dal Congresso Usa all’Amministrazione per negoziare accordi commericali. Nessuna nuova data è stata indicata; si è soltanto sottolineato che per sottoporre i risultati dei negoziati in tempo utile al Congresso Usa, i complessi accordi dovrebbero essere finalizzati prima della fine di luglio 2006. La posta in gioco è altissima e va al di là dei valori strettamente commerciali, investendo questioni di rilevante ordine politico. Formalmente il negoziato è fermo su tre dossier legati tra di loro. Il primo riguarda una riduzione significativa delle barriere tariffarie che ancora proteggono il mercato interno europeo: il secondo una significativa riduzione dei sussidi interni all’agricoltura americana: il terzo riguarda i tre principali Paesi emergenti: Brasile, India e Cina. Si tratta in quest’ultimo caso di ottenere, in particolare da Brasile e India una significatica riduzione delle barriere tariffarie sui loro prodotti non agricoli. Ma le implicazioni del Doha Round vanno molto al dilà di questi tre settori strategici. le difficoltà sono molte e profonde. Oltre a quella già menzionata relativa al rapporto tra il Congresso e l’Amministrazione Usa sul mandato negoziale, bisogna tenere conto che la flessibilità di tre principali attori è limitata dalle prossime scadenze elettorali. In autunno vi saranno le elezioni di medio termine negli Stati Uniti mentre in Brasile e Francia vi saranno le elezioni presidenziali in autunno e nella prossima primavera. C’è poi da dire che, nell’arco degli ultimi mesi, il protezionismo ha riacquistato molta forza nei Paesi industrializzati. Il fallimento del Doha Round darebbe, quindi, un’ulteriore spinta alle lobby protezionistiche focalizzando l’attenzione sui settori non competitivi da proteggere invece di sviluppare i settori d’avvenire. I grandi dissidi commerciali, oggi controllati alla procedura per la soluzione delle controversie della Wto e giudicata sulla base del diritto, riascquisterebbero una pericolosa dimensione politica. «L’erosione dei principi e delle discipline della Wto porterebbe alla sostituzione della legge del diritto con la legge della giungla» come ha scritto il Financial times in un editoriale del 6 aprile. Nello stesso tempo assisteremmo a gravi conseguenze nei rapporti con i Paesi in via di sviluppo. Per ottenere il loro consenso e la loro partecipazione al negoziato, i Paesi più avanzati avevano definito il Doha Round ”il negoziato per lo sviluppo”. Grandi erano state le ambizioni iniziali e gli annunci di possibili benefici per il Sud del mondo. L’Università di Yale, in uno studio sui possibili vantaggi per i Paesi in via di sviluppo, aveva calcolato che un aumento dell’1% delle loro esportazioni per effetto del Doha Round avrebbe portato 128 milioni di persone fuori dalla povertà. Per la sola Africa, vi sarebbero stati 70 miliardi di dollari di maggiori risorse, cinque volte in più degli aiuti che attualmente riceve. In realtà, qualcosa è stato fatto in questi quattro anni di negoziato e in particolare nella riunione ministeriale del dicembre scorso a Hong Kong. Fu deciso allora di eliminare per i Paesi più poveri del mondo tutti i dazi e le quote che limitano le loro esportazioni. Purtroppo, gli Stati Uniti non hanno potuto ancora accettare la totale eliminazione di dazi e le quote ed è così rimasto un importante 3% che dovrebbe scomparire alla fine del negoziato. ma le attese degli altri Paesi in via di sviluppo, inclusi quelli emergenti, rimangono molto ampie e finora senza significativi passi in avanti. Un insuccesso del negoziato si ripercuoterebbe, dunque, sulla credibilità dei Paesi più avanzati in un momento in cui la società mondiale ha bisogno di maggiore coesione e di solidarietà e non di ulteriori lacerazioni. Ma la conseguenza più pericolosa di un fallimento del Doha Round potrebbe ssere la marginalizzazione del sistema commerciale multilaterale. Verrrebbe messo così in crisi il sistema creato all’indomani della Secondo Guerra Mondiale e basato sulla ”clausola della nazione più favorita”. Un meccanismo che si proponeva di estendere automaticamente ai Paesi terzi i vantaggi commerciali che due o più Stati avevano negoziato tra loro. L’importanza politica di questo principio non può sfuggire. Esso favorisce la creazione di benefici e regole uguali per tutti ed era stato concepito come reazione al nazionalismo economico e politico degli anni Trenta. Il sistema ha avuto, in questi decenni, un indubitabile successo nel favorire la crescita economica mondiale, anche se non in modo equilibrato. Ha consentito anche eccezioni ”eccellenti” con la creazione di accordi regionali preferenziali quali la Comunità economica europea e il Nafta. Ma col passare del tempo, e in particolare dopo la caduta del muro di Berlino, la corsa agli accordi preferenziali regionali e in particolare bilateriali sta modificando gli equilibri originari del sistema commericale mondiale; gli accordi preferenziali previsti all’inizio come eccezioni alla clausola della nazione più favorita e sottoposti a controlli multilaterali, sono ormai diventati una regola senza discipline. Una delle cause è certamente la complessità dei negoziati multilaterali e quindi il numero di anni richiesto per giungere, dopo difficile negoziati, a una conclusione accettata da tutti. Oggi vi sono 190 accordi preferenziali registrati alla Wto, 70 in via di negoziato, 40 in fase prenegoziale. La Mongolia è tra i 149 membri l’unico a non essere parte di un accordo preferenziale. L’Unione europea ha invece il record di partecipazioni a questi accordi. Gli Stati Uniti, partiti in ritardo su questo terreno, sono ormai attivamente impegnati e hanno ora iniziato due nuovi accordi preferenziali con la Corea e la Malesia. Molte sono le spinte per un accordo con il Giappone. La Cina si sta muovendo anch’essa con grande rapidità e determinaziona a livello bilateriale prevedendo accordi con l’India, la Nuova Zelanda e i Paesi del Golfo. Sul piano multilaterale, la più importante iniziativa regionale in Asia è stata la riunione di un vertice a Kuala Lampur, nel dicembre scorso, dei capi di Stato di 16 Paesi asiatici con la partecipazione anche di India, Australia e Nuova Zelanda. Metà della popolazione mondiale vi era rappresentata, così come un terzo del reddito mondiale e un terzo del commercio mondiale. Ma - occorre sottolineare - gli Stati Uniti non sono stati invitati. I propositi dichiarati da 16 capi di Stato sono certo molto ambizioni: la creazione di una comunità dell’Asia orientale che dovrebbe ispirarsi all’Unione europea, senza che ciò comporti necessariamente forti legami istituzionali, ma tuttavia con una moneta unica. questo un chiaro segnale di una complessa partita tra Cina e Stati Uniti per assicurarsi la leadership regionale. Di fronte a questo rimescolamento mondiale delle carte, la voce dell’Europa appare ancora troppo debole. Intraprendere la strada di nuovi accordi, in particolare bilateriali, riduce progressivamente l’importanza del sistema multilaterale. Questo sistema è per sua natura non preferenziale e quindi non discriminatorio. Gli accordi commerciali regionali, in particolare quelli bilateriali, sono invece per loro natura preferenziali e discriminatori. La differenza è sostianzale. Il pericolo è che una politicizzazione crescente delle motivazioni che spingolo ad accordi commerciali bilaterali o regionali possa portare a favorire la creazione di blocchi economici contrapposti favorendo una sorta di ”balcanizzazione” del commercio mondiale. Tutto cià in un momento in cui il forte dinamismo della crescita dell’Asia, le grande modifiche nella graduatori delle potenze economiche mondiali, una crescente frammentazione del sistema commerciale mondiale, in particolare per effetto del bilateralismo, possono diventare fattori di nuove tensioni e divisioni. Mai come oggi abbiamo invece tutti bisogno di forti istituzioni multilaterali e di una indiscussa leadership negli scambi mondiali del sistema multilaterale creato all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Perché, mai come oggi, abbiamo bisogno nel commercio mondiale del ”dirittto della legge” e di regole e benefici negoziati su base globale e con la partecipazione di tutti i Paesi, anche i più poveri. Vi è oggi una maggiore consapevolezza di quale sia la posta in gioco, sia nei Paesi più avanzati sia in quelli emergenti e nella gran parte di quelli in via di sviluppo. A questa maggiore consapevolezza si accompagna la speranza che, alla fine dei negoziati, per evitare un disastroso fallimento, si dovrà trovare un accordo, meno ambizioso di quanto sperato, ma comunque in grado di permettere al sistema multilaterale degli scambi di continuare ad apportare, per la parte di sua competenza, gli indispensabili benefici alla crescita di un mondo migliore. Renato Ruggero