Danilo Taino Corriere della Sera, 27/04/2006, 27 aprile 2006
La lunga marcia dell’oro nero, Corriere della Sera, 27 aprile 2006 «Parlane con gli inglesi – disse al suo assistente, nel luglio 1941, Franklin Delano Roosevelt ”
La lunga marcia dell’oro nero, Corriere della Sera, 27 aprile 2006 «Parlane con gli inglesi – disse al suo assistente, nel luglio 1941, Franklin Delano Roosevelt ”. Spero che possano prendersi cura del re dell’Arabia Saudita. Per noi è un po’ troppo lontana». Fu probabilmente l’ultima volta che un presidente americano considerò il Golfo Persico lontano. Ma in quegli anni il mondo andava così: nel 1940, Arabia, Iran e Iraq avevano prodotto il 5% del petrolio totale, gli Stati Uniti il 63%; e per tutti gli anni della guerra il 90% della benzina degli Alleati arrivò dall’America. Ibn Saud aveva unificato quella penisola di sabbia a cui diede il suo nome, ma le ricchezze su cui contava a quel punto non erano molto più vaste di quelle, «che stavano sulla sella del cammello», degli inizi della sua lotta: il lago nero su cui il deserto galleggia non l’avevano ancora fiutato veramente in molti. In pochi anni, dopo la fine del conflitto, cambia tutto. Nel 1944, Everett DeGolyer – un geologo nato in una capanna del Kansas e diventato in assoluto l’esperto di petrolio più ascoltato al mondo, un mito del settore – rientra da un viaggio in Arabia Saudita e pronuncia il verdetto che segnerà economia e geopolitica. «Il centro di gravità della produzione mondiale si sta spostando dalla regione del Golfo del Messico e Caraibi al Medio Oriente, nel Golfo Persico». In effetti, i presidenti della Standard Oil of California e della Texaco, che nella terra dei Saud avevano iniziato a investire in modo considerevole, presto corrono a Washington per chiedere a Roosevelt di ripensarci e limitare l’influenza britannica nella regione. Così, di ritorno da Yalta, Roosevelt incontra Ibn Saud sul Canale di Suez, i due parlano di petrolio, fanno amicizia e tornano nelle loro capitali convinti che l’alleanza tra America e Arabia Saudita debba diventare uno dei pilastri del nuovo ordine internazionale. la Yalta dell’energia e il petrolio entra così nell’era contemporanea. Negli anni successivi, altri Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa sviluppano l’industria petrolifera. Soprattutto, si amplia a dismisura il potere internazionale delle cosiddette Sette Sorelle, le maggiori compagnie petrolifere con attività sparse su tutto il pianeta. Due sono di origine britannica, cinque sono americane e operano un po’ da cartello, per spartirsi le aree di influenza, e un po’ competono tra loro: sono gli anni in cui Royal Dutch Shell, Anglo-Persian Oil Company (poi British Petroleum), Standard Oil of New Jersey (poi Exxon), Standard Oil of New York (poi Mobil), Standard Oil of California (poi Chevron), Texaco e Gulf Oil impongono la loro legge ai consumatori ma soprattutto, grazie ai muscoli finanziari e politici e alle competenze tecnologiche, ai Paesi produttori. in questo mondo ideale (per i petrolieri) che negli anni Cinquanta il fondatore dell’Eni Enrico Mattei entra a piedi uniti e, per farsi spazio a scapito delle Sette Sorelle (la definizione è un suo copyright), inizia a proporre ai Paesi produttori contratti più vantaggiosi di quelli anglo-americani: i cartelli, anche quando sono formidabili, non possono durare per sempre e, nonostante la reazione spesso furibonda delle Sette grandi, l’iniziativa italiana ha infatti successo. Non tanto per i risultati immediati: alla morte di Mattei, nel 1962, l’Eni produce solo 40 mila barili al giorno fuori dall’Italia, in meno di venti pozzi. Ma perché la sua politica inizia a «scavare» nelle menti dei governi dei Paesi produttori: nel tempo, la compagnia italiana conquista posizioni e, soprattutto, gli sceicchi del petrolio iniziano a capire, grazie anche al modello Mattei, di avere in mano un’arma economica potentissima che può essere usata per accrescere enormemente ricchezza e potere politico. Nel 1960, nasce l’Opec, l’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio, un contro-cartello che si oppone alle compagnie occidentali. Già la guerra arabo-israeliana dei Sei Giorni del 1967 fa pensare ai produttori arabi di usare l’arma del greggio ma è la guerra dello Yom Kippur del 1973 a galvanizzarli e a spingerli a dichiarare un embargo sulle forniture di petrolio a Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone. Fino a quei giorni, le grandi compagnie occidentali erano riuscite a imporre prezzi estremamente bassi del greggio: da quel momento, inizia l’era del barile caro e del prezzo determinato dalle alchimie interne all’Opec, dominata dall’Arabia Saudita ma spesso condizionata da regimi meno vicini all’Occidente. Per tutti i successivi anni ’70 i prezzi restano in tensione, fino al massimo del dicembre 1979, dopo la rivoluzione iraniana (si veda il grafico). Da allora, il costo del greggio è dettato più dal rapporto tra domanda e offerta (e quindi dalle quote di produzione decise dall’Opec) che non da guerre e fattori geopolitici. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990 non porta a strappi di prezzo sostanziali. E, direttamente, nemmeno l’attacco dei terroristi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e la conseguente guerra in Iraq del 2003 sono responsabili della crescita del prezzo degli ultimi anni. Certo, le tensioni influiscono e aggiungono qualche dollaro al costo del barile. Ma la novità del mercato odierno e la ragione dei record attuali dei prezzi è la sete di petrolio delle economie emergenti, Cina e India in testa, che ha portato a un eccesso di domanda rispetto all’offerta dei produttori. Al momento, sono in corso investimenti massicci per aumentare la capacità estrattiva globale ma, dicono gli esperti, per tre anni i prezzi resteranno alti. Poi, potrebbero scendere. Forse, perché intanto sulla scena dell’energia sono arrivati nuovi protagonisti che amano far vedere i muscoli: Putin in Russia, Ahmadinejad in Iran, Chavez in Venezuela, per fare tre nomi. La geopolitica è tornata, insomma. E tutto ridiventa possibile. Come ai giorni di Mattei. Danilo Taino