Varie, Giorgio Dell’Arti, 28 aprile 2006
Dopo la morte di tre nostri carabinieri la settimana scorsa, cerchiamo di capire che cos’è Nassiriya e cosa ci stiamo a fare
Dopo la morte di tre nostri carabinieri la settimana scorsa, cerchiamo di capire che cos’è Nassiriya e cosa ci stiamo a fare. Nassirya Nassirya è una città recente, fondata appena nel 1870. Ci si passa andando da Najaf a Karbala. a sud, in mezzo al deserto. La abita l’etnia nemica di Saddam, cioè gli sciiti. Tutto il distretto di cui fa parte (il quindicesimo, si chiama Dhi Qar) è abitato da un milione di persone. Quattrocentomila di queste vivono nella regione che sta intorno alla città. La città in definitiva non è grande, vale più o meno una nostra Trieste. A trenta chilometri ci sono i resti di Ur, uno degli insediamenti urbani più antichi (cinquemila anni prima di Cristo). Gli iraniani che trafficano con l’oppio devono passare per forza di qui. Questo ha fatto nascere una mafia notevole. Del resto, è molto corrotta anche la polizia, che si regola ancora oggi sulle logiche di Saddam. Se sequestrano un’auto rubata, se la rivendono. Se arrestano qualcuno, aspettano - come facevano ai tempi del raìs - che un’autorità superiore (un tempo Saddam) gli faccia sapere se devono portarlo in prigione, liberarlo o farlo sparire. E poi eseguono senza discutere. Il concetto di ”tribunale” e di ”processo” (magari con garanzie) è difficile da far capire. Uno dei capi, qui, è Moqtada al Sadr, il giovane tondo e barbuto che due anni fa dichiarò la guerra agli stranieri di Nassirya (cioè noi) venendo però battuto. Un’altra autorità locale - uno di quelli di cui si dice che "non si muove foglia..." - è lo sheikh Ali al-Munshed, capo della tribù Al Ghazir, la più numerosa della regione. Petrolio Una questione è perché gli italiani siano stati mandati proprio a Nassirya. La ragione più probabile - ma che non si vuole dire - è che sia per via di un vecchio accordo dell’Eni con Saddam per lo sfruttamento di un consistente giacimento (2,5-3 miliardi di barili) che si trova qui. Sei mesi prima che scoppiasse la guerra, il ministero delle Attività produttive commissionò al professor Giuseppe Cassano, docente di Statistica economica all’università di Teramo, uno studio sulla zona, e Cassano scrisse che bisognava assolutamente farsi mandare a Nassirya "se non vogliamo perdere un affare da 300 miliardi di dollari". Sia chiaro che, in questo eventuale tornaconto (comunque tutto da verificare), non c’è niente di male. Il servizio che gli italiani hanno reso e stanno rendendo laggiù è fenomenale. Che ci facciamo Non siamo una forza d’occupazione, non abbiamo fatto e non stiamo facendo la guerra. La missione, che si chiama Antica Babilonia, all’inizio prevedeva tremila uomini, di cui 1850 militari, al comando degli inglesi. Noi alterniamo i contingenti e abbiamo suddiviso lo sforzo tra Esercito (1200 coinvolti), Marina (500), Aeronautica (200), Carabinieri (400). La legge dice che dobbiamo "garantire le necessarie condizioni di sicurezza per gli interventi umanitari, favorirne la realizzazione e concorrere al processo di stabilizzazione del Paese". E noi abbiamo fatto in modo che le strade fossero libere e percorribili da tutti coloro che si muovono per fini onesti; abbiamo mappato i siti archeologici; abbiamo selezionato il personale da assumere nelle nuove forze di polizia irachene, cercando di far entrare nelle teste degli iracheni i concetti di equità e garanzia; abbiamo messo in piedi un tribunale "abbastanza decente", secondo quanto ha detto l’inviato del Corriere Renzo Cianfanelli; abbiamo ricostruito una trentina di scuole, col sistema di mettere i soldi e dirigere i lavori, che sono stati poi fatti da lavoratori iracheni; stessa cosa con tutti gli altri edifici caduti; polizia stradale nella regione (il Dhi Qar è grande come l’Umbria); servizio di sicurezza quando gli abitanti della zona vanno a ritirare lo stipendio; sminamento; rilevazioni biologiche e chimiche; assistenza sanitaria; gestione dell’aeroporto.Tutto questo perseguendo l’obiettivo primario, che è quello del controllo del territorio e della lotta alla circolazione illegale di armi. E difendendoci quando siamo stati attaccati. I tre morti della settimana scorsa sono stati ammazzati, insieme ad un collega romeno, da una Ied, acronimo dell’inglese Improvised Explosive Devices o Bomba Improvvisata, un ordigno che si carica con poco esplosivo e che quando scoppia fa partire schegge di metallo a 10 mila chilometri l’ora. Un po’ di tempo fa il Sismi mandò un suo agente a trattare con Ali an-Munshed, quello che "non si muove foglia". L’idea era di dargli soldi e il permesso di far girare armati i suoi in cambio di appoggi. Ali ha promesso. Se il risultato è questo, non è incoraggiante. D’altra parte chiunque può preparare una Ied. E, d’altra parte, gli sciiti sono 170 milioni e sono naturalmente anche in guerra tra loro. Inoltre, gente che mette in piedi tribunali e organizza la polizia dà fastidio alla criminalità. Ci si deve rassegnare al fatto che in Iraq il 90 per cento di quello che succede non è il prodotto della cosiddetta resistenza irachena, ma il frutto di un’incessante attività malavitosa che si arricchisce con i sequestri e i saccheggi, e manda perfino i ragazzini a recuperare i pezzi di metallo dalle carcasse delle auto fatte saltare per aria per farne commercio. Soldi I nostri soldati prendono uno stipendio di duemila euro, che viene notevolmente arricchito dalle indennità di missione e di rischio. Il costo del personale è di circa 150 milioni. Il costo di tutta la spedizione, a regime, è di 500 milioni l’anno. Adesso Adesso i militari italiani rimasti in Irak sono 1600 (numero che sarà raggiunto alla fine di giugno). La nostra presenza laggiù è stata sancita anche da due risoluzioni dell’Onu, la 1511 del 16 ottobre 2003 e la 1546 dell’8 giugno 2004. In Irak c’è un governo, frutto di tre elezioni democratiche, che ci ha pregato di non andar via. I soldati iracheni che abbiamo addestrato finora sono diecimila. I poliziotti cinquemila. Gli italiani hanno tenuto sempre con gli abitanti del posto l’atteggiamento delle tre ”effe”, fair, friendly e firm, cioè garbato, amichevole e fermo. Casomai è capitato che proprio gli iracheni, le madri di famiglia, abbiano chiesto qualche volta la mano dura verso la delinquenza. Ce ne andremo entro l’anno e abbiamo lasciato sul campo, con quelli della settimana scorsa, 29 soldati. Che almeno non si pensi che tutto è stato fatto per niente.